Gianluca Paolucci, La Stampa 30/4/2009, 30 aprile 2009
Perché la Jeep si chiami così non lo sanno bene neppure al museo della Chrysler. Le alternative poste della targhetta che illustra un modello restaurato degli Anni 40 con la «divisa» dell’esercito americano in Europa sono due
Perché la Jeep si chiami così non lo sanno bene neppure al museo della Chrysler. Le alternative poste della targhetta che illustra un modello restaurato degli Anni 40 con la «divisa» dell’esercito americano in Europa sono due. Potrebbe derivare da Gp, General purpose, ovvero l’uso al quale lo spartano mezzo prodotto dalla Willys per le truppe americane era destinato: come dire adatto per fare un po’ di tutto. Oppure, potrebbe derivare da The Jeep, nome di un personaggio delle strisce di Popeye, Braccio di ferro. Poco distante da quella degli Anni 40 un’altra Jeep, decisamente meno spartana, utilizzata nelle riprese del film Lara Croft, ricorda ai visitatori che il tempo è passato ma l’auto adatta a tutto c’è ancora. Nel piccolo museo dove le scuole dei dintorni portano i bambini a giocare c’è racchiusa tutta la storia della Chrysler. La Model 70 del ”24, la prima auto con il marchio Chrysler, la Thunderbolt del ”41, i prototipi fantastici in mostra nel piccolo museo della casa automobilistica. Anche se John, pensionato che accoglie i visitatori, spera che il futuro possa essere la Cinquecento che da due anni è parcheggiata poco distante, nei garage dell’immenso stabile che ospita la sede Chrysler di Auburn Hills. «La più grande superficie coperta d’America dopo il Pentagono», raccontano con orgoglio i circa cinquemila colletti bianchi che ogni mattina arrivano fin qua dai sobborghi di Detroit. Nel palazzo centrale, quello con la grande stella a cinque punte in vetro e acciaio dietro alla quale c’è l’ufficio dell’amministratore delegato, in questi giorni le luci restano accese fino a tarda sera in attesa di notizie da Washington. La piccola Fiat è arrivata qui due anni fa, quando ancora l’eventualità di un’alleanza con il Lingotto faceva sorridere. Venne presa per la curiosità di tecnici e designer per la piccola vettura italiana, non è omologata ma può circolare come prototipo e pare che i manager facciano a gara per portarla un po’ a spasso nei dintorni. Prima, in 85 anni storia del marchio, le fusioni e le acquisizioni sono state più di una dozzina, con marchi ormai dimenticati (come Amc) e qualche incrocio con l’Italia, come negli Anni 80 quando la Chrysler di Lee Iacocca si trovò a controllare Maserati e Lamborghini. Quando è arrivato qui Rob, manager di 45 anni ben portati, i colletti bianchi di Auburn Hills erano molti di più, circa 15 mila. Lui veniva da New York e all’inizio era un po’ spaesato. Ma orgoglioso di entrare a far parte di un pezzo di storia delle quattroruote. Allora le cose andavano piuttosto bene e poco dopo Rob sono arrivati anche i tedeschi, quelli di Daimler e della Mercedes, che con una maxifusione formalmente «alla pari» si sono in realtà portati a casa la Chrysler. I tedeschi a Rob non sono piaciuti molto, come non sono piaciuti a tanti suoi colleghi dentro e fuori dal palazzone di Auburn Hills. Tante, troppe incomprensioni reciproche, conti in malora e macchine sbagliate. Tant’è vero che il matrimonio è finito male e, come tutti i matrimoni, con molti rancori reciproci. I tedeschi sono arrivati pagando 28 miliardi di dollari, rivendendo la maggioranza delle quote per 7,6 miliardi due anni fa e, la settimana scorsa, regalando di fatto il 20% che ancora restava nelle loro mani. I tedeschi non stavano simpatici neppure a George, loquace imprenditore di origine armena che dopo aver fatto affari per una buona parte della vita nel settore dell’auto ha cambiato strategicamente ramo e ha da poco aperto un maxicentro sportivo dedicato al Soccer, il caro vecchio pallone. «Ma almeno i tedeschi fanno auto, sempre meglio di quelli arrivati dopo», dice George. Quelli arrivati dopo sono il fondo Cerberus che controlla adesso il marchio della Stella a cinque punte. «Manager e banchieri che con questo mondo non c’entrano niente - dice George - non lo capiscono». Bob Nardelli, che adesso guida il gruppo, «prima lavorava per Home Depot (catena di bricolage e altre attrezzature per la casa, ndr) da dove se n’è andato con una maxiliquidazione dopo aver affondato le azioni del gruppo», dice George. Davanti a un caffè parla con la stessa ammirazione entusiasta dei pick-up Dodge, quelli che hanno fatto la storia del marchio, una variabile fissa del paesaggio rurale americano. E della Fiat X1/9 di un suo amico di gioventù, una delle ultime auto torinesi a essere importate in Usa con esiti peraltro non esaltanti. «Se questa storia finisce male - spiega Rob - finiranno male questo palazzone e tutti quelli che ci lavorano. E il ristorante che vedi laggiù, gli hotel dell’altra parte della strada, i giapponesi di Takata oltre l’incrocio che fanno gli airbag per le nostre auto, quelli di Delphi dietro la collina che fanno componenti. Ma finirà anche un pezzo di storia, e questo è molto triste».