Francesco Spini, La Stampa 1/5/2009, 1 maggio 2009
A Bruxelles la cosa è piaciuta assai poco. Gli uomini di Roche, la casa farmaceutica svizzera che produce il Tamiflu, farmaco principe nella lotta alla febbre suina, due giorni fa hanno dato buca
A Bruxelles la cosa è piaciuta assai poco. Gli uomini di Roche, la casa farmaceutica svizzera che produce il Tamiflu, farmaco principe nella lotta alla febbre suina, due giorni fa hanno dato buca. Non si sono presentati alla riunione tra il commissario Ue alla Salute, Androulla Vassiliou, e i rappresentanti dell’industria farmaceutica europea convocata per discutere di come affrontare l’emergenza. «Roche non ha partecipato senza dare spiegazioni», attacca il commissario. «Avevamo chiesto di partecipare telefonicamente, ma ci è stato negato», ribattono da Basilea. «Non è questo il modo di lavorare in maniera collegiale», chiude la Vassiliou. Nei corridoi della Commissione europea la sensazione è che la casa di Basilea voglia trattare direttamente con i singoli governi sull’impiego del suo superfarmaco. Non a caso il sottosegretario alla Salute, Ferruccio Fazio, conferma: «Dalla Roche mi hanno chiesto un appuntamento». Tutto questo proprio mentre il Tamiflu diventa sempre più oggetto del desiderio di chi, in preda alla psicosi, si sente braccato dall’influenza suina. In Francia (come in Italia) può essere venduto con la sola ricetta medica, ma a Parigi non se ne trova più. Tanto che la filiale Roche ha chiuso i rubinetti a farmacie e grossisti: «Non stiamo finendo le scorte, ma è nostra responsabilità dare priorità agli ospedali e alle autorità sanitarie», la motivazione della casa svizzera. Insomma, da caso clinico va diffondendosi il dubbio che quest’influenza vada trasformandosi anche in un caso di business. In cima alla lista delle società sorvegliate speciali dagli analisti di Borsa ci sono Roche, ovviamente, e GlaxoSmithKline. La prima, sede a Basilea in Svizzera, parte in vantaggio grazie all’ormai noto antivirale che raggiunse i massimi di vendite nel 2006, a quota 1,6 miliardi di euro per le scorte governative post Sars. A Gilead, società californiana che mise a punto il Tamiflu per Roche nel ”96, va tra il 14 e il 22% di royalties. Per GlaxoSmithKline la ricetta si chiama invece Relenza che, al contrario di Tamiflu, si assume per inalazione e non va bene per tutti i pazienti. Il picco di vendite è stato raggiunto nei primi tre mesi di quest’anno, grazie a un maxi-ordinativo del governo britannico. Anche qui c’è un giro di royalties che Gsk riconosce all’australiana Biota, pari al 7% sulle vendite totali. In prospettiva sarà comunque un buon affare. Secondo gli analisti della svizzera Credit Suisse ogni 151 milioni di euro di vendite aggiuntive di anti-virali dovuti all’influenza, gli utili delle case farmaceutiche produttrici ne hanno un beneficio dello 0,5%. Per questo la banca dice che i titoli di queste aziende «possono essere usati per proteggere i portafogli nel caso la febbre suina dovesse diventare una grande pandemia». La Borsa, del resto, è cinica. E cerca ripari anche in queste società nel caso che l’epidemia trascinasse al ribasso anche i già provati mercati finanziari. Invece «l’opportunità di un possibile vaccino presenta più rischi», segnala Marco Mencini, capo analista europeo di Pioneer Investments. Troppe le variabili in gioco: dal mutamento del virus, ai tempi lunghi di preparazione. Tra i big dei vaccini in Europa Sanofi, Gsk e Novartis. Ma in Borsa volano già in tanti «con casi di pura speculazione», come li definisce Patrizio Pazzaglia di Bank Insinger de Beaufort. Il record va alla piccola Novavax di cui ora tutti vogliono le azioni: al Nasdaq di New York è salita del 200% in pochi giorni solo per aver detto di lavorare al vaccino. Stampa Articolo