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 2009  aprile 30 Giovedì calendario

IL RIFUGIO SEGRETO DEI RIFUGIATI


«Non devi dire che stiamo qui. Se lo dici arrivano e ci mandano via. Ogni volta che i giornali scrivono di noi, il giorno dopo c’è uno sgombero». Ahmet è irremovibile. Parla in pashtu con Emret, il mediatore culturale dell’associazione Medici per i diritti umani che da ormai tre anni segue da vicino le condizioni dei profughi afghani che vivono alla stazione Ostiense. E’ molto giovane, ha appena diciotto anni. Gentile, ma intransigente. Qui non ci sono portavoce: la stazione è da parecchio tempo il rifugio per quasi tutti gli afghani che arrivano a Roma, il ricambio di persone è talmente veloce che non si è mai creata una vera e propria comunità. Ma Ahmet oggi parla più degli altri. E difende il suo posto. «Scusa ma abbiamo paura. Qui arrivano anche in piena notte a buttare tutto all’aria». E di sgombero in sgombero questi uomini, spesso minorenni nonostante ultimamente sia facile incontrare anche persone più adulte, sono arrivati fino a qui. Una sistemazione che lascia a bocca aperta: per arrivarci bisogna allontanarsi dalla stazione. La posizione, come spiegato, conviene non rivelarla. Ma basti dire che si sono sistemati sotto un vecchio rimorchio per treni. Arruginito, dimenticato da chissà quanti anni. E ora loro, proprio sotto le ruote, hanno costruito con meticolosità dei piccoli ripari, tra il terreno e il corpo del rimorchio. Non sono alti neanche un metro. Ci si entra solo in ginocchio. Ma nella miseria del contesto hanno tutti i crismi dell’abitare. Ciascuno ha una porta (una coperta), all’interno ci sono due o tre letti (vecchi panni sistemati come un giaciglio), il tetto è stato impermeabilizzato con sacchi di plastica, vecchi k-way. Una manna in questi giorni di pioggia battente. Fuori c’è una tanica con l’acqua potabile. Appoggiato al tetto del rimorchio anche un piccolissimo pezzo di vetro. E’ lo specchio. Serve per farsi la barba.
Ahmet ha in mano un grosso sacco sportivo. Dentro ci sono i suoi vestiti e le sue scarpe da ginnastica. E’ appena andato a lavarli in una lavanderia, di quelle automatiche. Ora li stende su una rete. Le scarpe invece le mette ad asciugare su una barriera mobile ferroviaria. Gli abitanti di questo luogo sono stati fortunati. Sono lontani da occhi indiscreti, nascosti. Sono scomparsi. E questo va bene. E’ andata malissimo, invece, alle altre persone - forse un centinaio - che il 14 aprile scorso avevano preso le tende distribuite dall’associazione Medici per i diritti umani. Erano tende a igloo, blu. L’associazione, insieme all’Istituto San Gallicano, aveva pensato di fornirle a quanta più gente possibile per evitare che dormissero per terra. Dove dormono abitualmente. «Sono arrivati il giorno dopo di mattina, intorno alle sette - racconta ancora Ahmet - e hanno portato via tutto. Ma dico tutto. Anche gli effetti personali dei ragazzi: i vestiti, le coperte. Sono rimasti senza niente. Solo quello che avevano indosso. Meglio non farsi vedere. Se non ti fai vedere ti lasciano stare». Anche chi abita qui ha preso le tende. Ma le hanno sistemate dietro al rimorchio, ben nascoste. E si sono salvati da uno sgombero delle forze dell’ordine arrivato inaspettato anche per l’associazione che, proprio il giorno dopo la distribuzione delle tende, aveva organizzato un incontro pubblico per discutere della questione dei profughi afghani. Al tavolo ha partecipato anche un rappresentante del Comune, e per martedì prossimo l’associazione ha ottenuto un colloquio con l’assessore alle Politiche sociali Sveva Belviso: «Azioni come questa sono incomprensibili - dice Alberto Barbieri, uno dei medici - Privarli anche di innocue tende e oltretutto portare via qualsiasi cosa, ci sembra soltanto un modo per spingerli ancora più ai margini. In pratica: cacciarli senza dirlo».
Il problema è proprio questo. Il rompicapo, il rebus dei ragazzi della stazione Ostiense, a cui nessuna amministrazione è riuscita a dare risposte. Ha fallito la giunta Veltroni e sta fallendo la giunta Alemanno. Gli afghani sono quasi tutti richiedenti asilo. Se qualcuno non ha presentato la domanda è perché è appena arrivato, e sta riflettendo sull’opportunità di rimanere a Roma. Questa è solo una tappa del loro lungo viaggio. Non solo. Molti di loro hanno già ottenuto una protezione dalla Commissione che ha esaminato la loro richiesta. E ancora, alcuni di loro sono minorenni. Tradotto: non dovrebbero essere qui. Avrebbero diritto, secondo le leggi italiane e le Convenzioni internazionali, ad avere un tetto sopra la testa, un programma di reinserimento in Italia, un futuro sicuro per dimenticare un passato fatto di guerra e inciviltà. Invece ecco che da dietro una coperta - la porta - esce una stampella. E poi un uomo. Un po’ a fatica, perché è malato. A gesti fa capire di aspettare un attimo. Si dirige verso il muso del rimorchio, da dove tira fuori la seconda stampella. Ora, dritto sulle sue quattro gambe, dalla tasca interna del giaccone tira fuori un pacco di documenti. Si chiama Kaiko, è di orgine hazara, è entrato in Italia il primo settembre del 2007. E’ ancora richiedente asilo, forse ad aprile esamineranno la sua pratica. Ma questa è solo la minima parte della sua storia fatta di documenti. Il resto sono referti medici. Kaiko è stato operato all’ospedale San Filippo Neri, dove è stato ricoverato per due mesi. Poi ha passato un mese e mezzo in un centro di accoglienza. Poi basta. Al San Filippo Neri gli hanno messo una protesi all’anca, che soffriva di artrosi a causa di «un trauma», c’è scritto sulla cartella clinica. Kaiko racconta che è stato un missile taleban a ridurlo così nel 1997 a Mazar-e-Sharif. Il problema però è adesso, in Italia: «La gamba mi fa male. E quando bisogna andare alla mensa per mangiare, io non ci posso andare. La fila è lunga e non posso stare molto in piedi».
Ma se la legge, forse, riconoscerà a Kaiko una protezione per altri, come Ahmet, è stata una gogna. Lui, in tasca, ha un diniego della Commissione per il diritto d’asilo. Non perché la sua storia non meriti attenzione. Ma perché il ragazzo, come la maggior parte degli afghani, è arrivato in Italia dalla Grecia. Però è stato sfortunato: in Grecia hanno preso le sue impronte digitali. E’ quindi marchiato, secondo la Convenzione Dublino II - basata sul presupposto che tutti i paesi europei hanno un sistema di asilo, e dunque bisogna fare la richiesta nel primo paese di approdo - deve tornare lì. Lui fa una smorfia. Persino l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati ha ufficialmente chiesto ai paesi che accolgono profughi provenienti dalla Grecia di non rimandarli indietro, perché in quel paese il diritto di asilo non viene rispettato. Ma la legge, formalmente, dice altro. E di formalità, a volte, si può anche morire.