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 2009  maggio 01 Venerdì calendario

«C’è

chi dice che per guarire l’Italia delle sue molte magagne, basterebbe mettere in prigione Mattei, ma c’è chi dice anche se l’Italia oggi ha un prestigio nel mondo, lo deve a Mattei».

Il 13 luglio 1962 il «Corriere della Sera » pubblicò in terza pagina il primo di una serie di cinque articoli, che si sareb­bero succeduti in sequenza quotidiana sino al 17, dedicati al fondatore del­l’Eni. L’occhiello era di inusuale aggres­sività per l’epoca: «i poteri che sconcer­tano l’opinione pubblica». Sorprende­va anche che a firmare l’inchiesta fosse il giornalista più noto e autorevole di via Solferino, Indro Montanelli, che pe­rò di economia fino allora si era occupa­to poco o niente. A fare questa scelta era stato Alfio Russo, il direttore chia­mato l’anno precedente a sostituire Ma­rio Missiroli per contrastare la concor­renza del «Giorno», il quotidiano nato nel 1956 con i finanziamenti di Mattei, il quale aveva pensato proprio a Monta­nelli come direttore. Prima di comincia­re il lavoro di ricerca, che durò tre me­si, Montanelli chiese se gli azionisti era­no disposti a perdere i settecento milio­ni di pubblicità annuale dell’Eni sul «Corriere».

Per avvicinarsi alla figura di Enrico Mattei da una prospettiva molto critica, ma ricca di chiaroscuri, ora che Rai Uno si prepara a mandare in onda domenica e lunedì il film di Giorgio Capitani, «En­rico Mattei. L’uomo che guardava al fu­turo » con Massimo Ghini e Vittoria Bel­vedere, leggere quegli articoli ci riserva più di un’emozione e diversi spunti di riflessione. Dieci giorni dopo la pubbli­cazione dell’ultima puntata, Enrico Mat­tei rispose con una lunghissima lettera a tutte le contestazioni di Montanelli, il quale di lì a qualche mese, il 29 ottobre dello stesso anno, due giorni dopo il tra­gico incidente aereo di Bascapé, in cui il fondatore dell’Eni perse la vita, rese al «petroliere senza petrolio» l’onore delle armi, scrivendone un ritratto quasi commosso e addossando la maggiore responsabilità dei suoi errori ai politici che non erano stati in grado di conte­nerne l’esuberanza.

L’esplicito punto di partenza dell’in­chiesta erano le preoccupazioni del­l’opinione pubblica liberale e quindi di alcuni industriali per la nascita di un al­tro ente pubblico, l’Enel, che si temeva potesse replicare i difetti dell’Eni, nato il 10 febbraio 1953 dalle ceneri del­l’Agip e di altre società con l’impulso decisivo di Mattei. Dopo aver tracciato la biografia dell’imprenditore, nato nel 1906 ad Acqualagna nelle Marche da una modesta famiglia di origini abruz­zesi, averne descritto le precoci e straor­dinarie doti imprenditoriali, Montanel­li contestava la posizione monopolisti­ca nello sfruttamento dei giacimenti pe­troliferi e di metano nella valle del Po. Un diritto di esclusiva, contrario a ogni principio liberale, ottenuto con l’appog­gio dei democristiani Ezio Vanoni e Al­cide De Gasperi e grazie alla capacità di costruire il mito della «potente benzina italiana» di Cortemaggiore.

Il petrolio in realtà, scriveva Monta­nelli nella seconda puntata, non era molto. C’era un po’ di metano, ma fatto pagare a un prezzo doppio di quello di New York, «dove arriva nientemeno dal Texas». Perché, chiedeva poi il gior­nalista, l’Eni fa un piccolo sconto sulla benzina, ma non abbassa le tariffe del­l’olio combustibile venduto a prezzi esosi alle industrie private? Le accuse di bilanci poco trasparenti e di prospet­tive nebulose sulla reale potenzialità dei giacimenti italiani completavano il quadro.

Le bordate più grosse dovevano tut­tavia ancora arrivare. Nella terza e quar­ta puntata Montanelli metteva a nudo il «metodo Mattei» negli accordi con Iran ed Egitto: alla divisione dei profitti adottata dalle «sette sorelle», che secon­do Montanelli «non erano nemmeno cugine», il tycoon italiano aveva sosti­tuito il sistema del fifty-fifty nella pro­prietà delle aziende di ricerca e sfrutta­mento dei giacimenti. Mettendo a ri­schio i «soldi nostri», cioè dei contri­buenti.

La lotta contro il cartello petrolifero aveva risvolti politici sia quando Mat­tei coltivava «i complessi cubani», cioè l’antiamericanismo di parte dell’opinio­ne pubblica italiana, sia quando si sosti­tuiva alla diplomazia e ai ministri per trattare con i sovietici, offrendo prodot­ti e infrastrutture in cambio di petrolio. Montanelli riportava una lamentela del premier britannico Macmillan con Fan­fani: «Cinquanta chilometri di oleodot­to in direzione dell’Occidente sono cin­quanta chilometri di autonomia per i carri armati in una loro eventuale avan­zata ».

Ma non era finita. Nell’ultima e con­clusiva puntata, oltre a denunciare inve­stimenti a suo dire azzardati, come l’ole­odotto da Genova alla Baviera, Monta­nelli si riservava le stoccate più veleno­se: sul «Giorno», che veniva accusato di scarsa indipendenza; sul ministro Gior­gio Bo, definito «un ex legale di Mattei titolare delle Partecipazioni statali»; so­prattutto sulle capacità corruttive del­l’imprenditore pubblico. Personalmen­te Mattei era al di sopra di ogni sospet­to: «non ha una casa, abita in un appar­tamento di tre stanze in albergo, e sua moglie non possiede né una pelliccia né un gioiello». Però finanzia i partiti, «in toto la Democrazia cristiana», ma anche gli altri «e non soltanto di sini­stra ». Poi «ci sono i sussidi alla stampa sotto forma di contratti di pubblicità». Insomma, «un corruttore incorruttibi­le » e anche «un imprenditore di altissi­mo bordo». Soltanto, era la conclusio­ne, che «lo Stato italiano è troppo debo­le e sgangherato per azionare un robot della forza di Mattei senza fare la fine dell’apprendista stregone».

Il presidente dell’Eni rispose alle cri­tiche punto per punto, obiettando che l’articolista, un «Catone locale», di eco­nomia capiva meno di un ragioniere. Una cosa ammise: «l’umiliazione» subi­ta dall’Eni e quindi dall’Italia per mano delle ’sette sorelle’». Su una sola cosa sorvolò: il ruolo del «Giorno» e i rap­porti del suo gruppo con la stampa.

Tre mesi dopo Enrico Mattei morì nell’incidente di Bascapé. Montanelli nel suo necrologio non diede credito al­l’ipotesi dell’attentato. E nei quarant’an­ni che gli restarono da vivere difese sempre quest’opinione.

Il duello Secondo il celebre inviato di via Solferino, il manager era «un corruttore incorruttibile» e le Sette Sorelle «non erano nemmeno cugine».