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 2009  maggio 01 Venerdì calendario

Roberto Mazzotta, vicesegretario della Dc, presidente della Cariplo, fino alla settimana scorsa della Popolare di Milano, è a Roma di passaggio

Roberto Mazzotta, vicesegretario della Dc, presidente della Cariplo, fino alla settimana scorsa della Popolare di Milano, è a Roma di passaggio. Ha staccato i telefonini. Lo attendo­no le terme. L’occasione per riflettere su una vicenda, la sua, al centro della politica e del­l’economia degli ultimi quarant’anni. Presidente Mazzotta, nei Diari di Monta­nelli lei è citato spesso come interlocutore privilegiato dentro la Dc. Parlavate di oppo­sizione a Moro e al compromesso storico, di un nuovo partito... «Era il 1976. Da due anni ero al governo co­me sottosegretario di Albertino Marcora: il mi­nistro che stava modernizzando l’Agricoltura; e il leader della sinistra Dc». Com’era Marcora? «Grande schiettezza. Mente da imprendito­re. Leader di organizzazione più che leader po­litico. Mi costò dirgli che non ero d’accordo con lui sulla solidarietà nazionale, e quindi mi dimettevo. Il dialogo con il Pci era giusto; ma la consociazione bloccava sia noi sia loro. Un errore per la democrazia». E Marcora? «Mi chiese se ero ammattito. Era molto ar­rabbiato. Ma al momento di salutarlo gli dissi: ’Di’ la verità, tu la pensi come me’. ’Tu sei gio­vane, e lo puoi fare’ fu la risposta. Poi mi can­didai contro di lui al congresso milanese della Dc. Finimmo a casa di sua madre, che ci prepa­rò lo stracotto, a contare le sezioni in cui ave­va vinto lui e quelle in cui avevo vinto io». Vinse lei. Da qui le attenzioni di Montanel­li. Come lo ricorda? «Molto diverso da come appariva. Dietro le battute scettiche e l’apparente relativismo, na­scondeva una grande passione e anche una profonda fede in quell’Italia che in pubblico biasimava. Gli chiedevo spesso perché non en­trasse in politica». E Montanelli? «Rispondeva che per fare politica occorro­no persone con tanti difetti. E che lui da una parte ne aveva molti di più, ma dall’altra par­te, quella che contava, molti di meno». Il suo gruppo si infranse contro la resi­stenza di Moro. «Ricevette Mario Segni, Gerardo Bianco e me nel suo ufficetto romano. Ci lasciò parlare a lungo. Poi disse: ’Vi capisco, fossi in voi fa­rei le stesse cose. Ma dovete darmi retta. Non avete idea dei pericoli che ci sovrastano’». Anche l’incontro con Berlusconi è del ”76? «No, Berlusconi lo conosco dal ”70. Stava fa­cendo Milano2, che resta il miglior esempio di urbanistica del dopoguerra. Era un impren­ditore pieno di idee, con cui nacque un’amici­zia. Non mi ha mai chiesto nulla. Io invece gli chiesi un aiuto per le elezioni del ”76: ’A Mila­no2 sono tutti democristiani, mi organizzi una serata?’. ’Ti offro di meglio: vieni tutte le mattine che vuoi, alla nostra tv via cavo. C’è un presentatore che propone diete alle signo­re. Sarà felice di intervistarti’. La tv si chiama­va Canale 5». Vi parlaste anche al momento della disce­sa in campo? «Sì. Fu lui a cercarmi. Con la morte nel cuo­re, gli dissi che avrebbe dovuto allearsi con la Lega, cui il fallimento della Dc aveva spalanca­to le ricche valli lombarde». Come giudica il Berlusconi premier? «Non sono un sostenitore della Seconda Re­pubblica, che preferisco chiamare Non-Re­pubblica, in cui il rapporto con i cittadini non è intermediato dai partiti, dalle istituzioni, dal­le forze sociali, ma dalla tv. Se Non-Repubbli­ca dev’essere, meglio Berlusconi di altri». Meglio Berlusconi di Prodi? «Anche con Prodi il rapporto dura da una vita, ed è un buon rapporto. Quando eravamo giovani lui era il consulente della Dc, ma ama­va sottolineare di non appartenere alla Dc stes­sa. Un vezzo che non mi piaceva». E il Prodi politico? «Nella condizione innaturale, non italiana, del bipartitismo, la strategia di Prodi – aggre­gare un’area vasta progressista – è più razio­nale di quella di Veltroni». Della Dc lei fu vicesegretario unico, con De Mita. «Mi candidai contro di lui, ma non avevo le firme. Mi chiama Donat-Cattin: ’Sei un folle, la tua è una pura provocazione, ma se vuoi le firme per candidarti contro De Mita te le do io’. Dovetti rinunciare comunque. Ma De Mi­ta comprese che, se non avevo consenso nel­l’apparato, ne avevo nell’elettorato. Volevo una Dc più attenta al Nord, all’economia, al mercato, alle imprese. Capace di rappresenta­re i ceti popolari, e di essere l’interlocutore dell’establishment, che considerava la Dc un accidente di cui sarebbe stato meglio fare a meno». De Mita era l’uomo giusto? «De Mita era convinto di queste cose ma non poteva esplicitarle. Da vice, io ero più libe­ro. Lui mi definiva il suo consulente economi­co perché, diceva, non capiva nulla di econo­mia. Ovviamente, lo diceva per scherzo: De Mita non ha mai accettato di non capire qual­cosa di questo mondo». Poi arrivò la sconfitta dell’83. La Dc perse sei punti. E lei cambiò mestiere. Le banche. La presidenza della Cariplo. «Peggiore della sconfitta fu la reazione del­la Dc. Fort Alamo. Si rinunciò all’offensiva, ci si rassegnò alla difesa e alla lenta perdita delle posizioni di potere. Io divenni capo dell’uffi­cio economico. Con Nino Andreatta, uomo straordinario, concepimmo quella che sareb­be diventata la legge Amato: privatizzare il si­stema bancario; l’ente conferente, che poi sa­rebbe stato chiamato fondazione, apporta le sue azioni a una spa, e gradualmente cede il controllo della banca, che resta però una ban­ca del territorio. Pensavamo anche a una hol­ding nazionale, dove le fondazioni potessero concentrare le loro partecipazioni nelle spa lo­cali. Una sorta di Crédit Agricole italiano». La «sua» Cariplo. «Cominciammo a comprare casse di rispar­mio, a litigare con chi non ne voleva sapere, a tranquillizzare Verona e Torino terrorizzate dai milanesi alle porte, a convincere gli scetti­ci che si trattava di un progetto civile. Erava­mo in una fase avanzata: avevamo 15 casse di risparmio, il governo Amato aveva preso una decisione che poi non ebbe seguito, conferire a noi e all’Iccri (l’Istituto centrale delle casse di risparmio) il 50% dell’Imi, allora sotto il controllo pubblico. Eravamo a un passo dal creare un grande gruppo, tutto italiano, forte su ogni versante: la banca di territorio; il credi­to industriale; il credito a medio termine. Poi...». Poi Di Pietro chiede il suo arresto. «Ero a Londra, per una riunione con le cas­se di risparmio inglesi. Mi telefona alle 6 del mattino mio figlio, allora diciottenne, terroriz­zato: ’ appena uscita di casa la guardia di fi­nanza’. Rimasi traumatizzato tre o quattro giorni. Poi rientrai. E mi dimisi a razzo da tut­te le cariche». Come fu con lei Di Pietro? «Non mi faccia parlare di Di Pietro. A me fu riservato tutto il peggio. Le dirò solo questo: fu un’operazione di cui sono chiari i motivi, la tempistica, gli effetti. Il regime mi condannò al confino per sei anni. Tanti ne passarono pri­ma che arrivasse l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Sei anni di vita professiona­le bruciati, in un momento non casuale». Lei ricominciò dalla Popolare di Milano. Una storia che oggi finisce. «Si era dimesso per ragioni personali il vice­presidente Boroli, fui chiamato a sostituirlo. Oggi provo gratitudine per la Banca popolare di Milano e per i sindacati che mi offrirono quella possibilità. Avrei voluto che la Popola­re potesse crescere al fianco di un sindacato consapevole del proprio prezioso ruolo: asse­condare la crescita della Banca, non condizio­narne la gestione. Invece è prevalsa una volon­tà conservatrice, che ha portato alla rottura della collaborazione. Non però a una rottura dei rapporti personali». Neppure con Ponzellini? Come si è com­portato «Ponzellini si è comportato benissimo. Pe­rò, se fossi stato in lui, non mi sarei mai pre­stato a porsi in alternativa a me, mentre ero impegnato a riportare il sindacato alla sua giu­sta funzione: rappresentare i lavoratori, non gestirli». Il governo è intervenuto? «Quasi tutti quelli che non sarebbero dovu­ti intervenire sono intervenuti». E nella crisi il governo come si muove? «Bene, in linea con gli altri governi europei. Il problema è che si danno risposte nazionali a una crisi globale. Di conseguenza, la reces­sione durerà ancora a lungo». Come trova la Milano di oggi? «Ha perso un establishment e non è ancora riuscita a sostituirlo con uno nuovo. Ha il pro­blema dell’adeguamento istituzionale: senza un governo metropolitano, Milano non ha fu­turo. Perde colpi nelle infrastrutture: è impen­sabile che un imprenditore milanese per vola­re all’estero debba passare da Roma o Zurigo. Deve internazionalizzarsi, puntando sulle ec­cellenze: l’università, la ricerca. Soprattutto, manca una regia. Nella politica, nella cultura, nelle imprese. Appunto, un establishment. Pu­re il Corriere dovrebbe muoversi, perché dal futuro di Milano dipende anche il suo». Non vede segni di speranza, per Milano e per il Paese? «Ne vedo moltissimi. Vedo molti giovani imprenditori interessanti. Il sistema delle fa­miglie tiene. E il cambio forte, anche se tutti dicono il contrario, ha giovato alle imprese, costringendole a concentrarsi sul lavoro e sul prodotto. Non tutti saranno presenti, quando la crisi sarà passata. Ma il sistema manifattu­riero, che è il cuore dell’economia italiana, sa­rà più forte, e ci consentirà di ripartire». Aldo Cazzullo