Emanuele Trevi, La Stampa 1/5/2009, 1 maggio 2009
FULVIO MILONE
ROMA
La lama è balenata all’improvviso. Il coltello non era dell’aggressore, qualcuno glielo ha passato e questo fa pensare che non si sia trattato solo di una banale, improvvisa lite fra ragazzini.
C’è qualcosa di più e di peggio dietro il ferimento, ieri, di D.P., 14 anni, colpito a un fianco da uno studente romeno, A.E., di un anno più vecchio, davanti alla scuola media di San Vittorino Romano, vicino a Tivoli. C’è il bullismo, certo, ma pesano anche la rabbia e l’antagonismo che da tempo covava fra due gruppi di nazionalità diversa che frequentano le stesse aule ma non la smettono di beccarsi: quello degli italiani e l’altro dei romeni. Alla fine è saltato fuori il coltello, la lama che negli ultimi mesi è diventata terribilmente di moda fra gli under 18 di Roma e dintorni.
Un fenomeno che preoccupa il sindaco Gianni Alemanno al punto da indurlo a chiedere che venga inserita nel disegno di legge sulla sicurezza, in discussione alla Camera, una norma che preveda l’aumento della pena per la detenzione di armi da taglio.
Manca poco alle otto, sta per suonare la campanella che avvisa dell’inizio delle lezioni nella scuola «Giovanni e Francesca Falcone». C’è folla, con tutti quei ragazzi e i professori che si apprestano a entrare nelle aule. Ci sono anche due gruppetti: del primo è leader il romeno, chi lo conosce lo descrive come un ragazzo difficile che frequenta per la terza volta la seconda media. Poco più in là, nel campo di calcetto, c’è il figlio di un magazziniere e un’operaia, alunno della terza: anch’egli un ripetente, un «vecchio» per i compagni che in lui riconoscono il capo.
Da giorni i due si beccano in continuazione. Finora sono volati solo insulti e sfottò, stavolta accade il peggio. All’ennesimo battibecco il romeno reagisce cercando lo scontro fisico. Scavalca la rete che delimita il campetto, impugna un coltellino a molla che qualcuno gli ha passato e colpisce l’italiano a un fianco, prima che i professori riescano a bloccarlo.
Arrivano i carabinieri, la vittima finisce in ospedale. La ferita è lieve ma il fatto è grave: il pm ordina il fermo dell’aggressore per tentato omicidio. «Non è giusto - dice il fratello del romeno - siamo esasperati perchè gli italiani ci provocano in continuazione». Ma il quindicenne ferito racconta un’altra storia: dice che è stato insultato così, senza un perchè, e che è stato accoltellato solo per aver risposto per le rime. La madre gli crede: «Mio figlio non c’entra, non ha nulla contro i romeni. Anzi, è amico di un paio di loro...».
E poi c’è la scuola, sei plessi frequentati da 1100 alunni, il 10% romeni. Che fra gli studenti italiani e quelli stranieri non corra buon sangue è cosa nota. «Qui si menano di brutto, c’è xenofobia ma anche violenza fine a se stessa», dicono molti studenti.Come fossero gazzette di metà Ottocento, le cronache romane dei quotidiani e dei tg non sono mai avare di ferite da coltello, più o meno mortali. Per i romani di oggi, questo stupefacente arcaismo sembra una di quelle fatalità del costume da accettare così come sono, anche se la ragione suggerisce che non è possibile, anche se nel resto del mondo non è così. Brillano le lame allo stadio, di fronte ai locali nelle notti d’estate, all’uscita delle scuole. Proprio come nei capitoli più appassionanti della Vita di Benvenuto Cellini, quando, compiuto il fattaccio, bastava chiedere la protezione di qualche alto prelato o passare un mesetto in campagna per farla franca.
Inserita nelle pagine di cronaca nera, l’erudizione locale ha sempre l’effetto di una consolazione, magra ma almeno minimamente efficace. Tra tante idiozie che fino a ieri non si potevano nemmeno immaginare, almeno questa ha la sua storia, fa parte di un intreccio di tradizioni pieno di oggetti e abitudini del tutto inoffensivi, come la statua di Pasquino, gli stornelli, i rigatoni alla pajata.
Nessun nascondiglio è più pericoloso, per delle lame affilate, di questo ammasso di buone cose all’antica di pessimo gusto. Si ricordano e si citano a memoria le memorabili sentenze dei trasteverini e dei monticiani che parlano nelle poesie del Belli, di Pascarella, di Trilussa. Per tutti questi poeti non c’è forse, prima o poi, un tema più obbligato, pena l’omissione di un tassello importantissimo della mitologia popolare. Tanto più che ci sono popoli-bambini, sottomessi e narcisisti per natura e condizioni storiche, per i quali la mitologia coincide con la vita stessa, senza residui. E dunque, ci si ripete il memorabile finale del sonetto di Pascarella intitolato, appunto, Er coltello: «Er mejo amico mio ce l’ho in saccoccia».
Questo migliore amico tascabile è l’emblema supremo di quell’ammirevole ibrido di furbizia e demenza messo in scena da Pascarella. Il coltello, al nostro eroe, lo aveva regalato la sua Ninetta, prima di morire, e sulla lama stanno incisi un fiore e le iniziali degli amanti. Nel donarglielo, questa indimenticabile Ninetta aveva chiesto all’amante di usarlo per sfondarle il cuore il giorno stesso in cui non gli fosse importato più nulla di lei. Ed ecco che, a intendere bene il poeta, un nuovo elemento importante ci si rivela. Er cortello e Ninetta fanno parte della stessa demenziale costellazione psicologica.
Dietro ogni pericolo pubblico che si porta il suo migliore amico «in saccoccia», c’è una donna appassionata, lievemente isterica, mamma o moglie fiera del suo delinquente a piede libero. E come ai tempi di Meo Patacca o Rugantino, la rapidità e la perfezione dei gesti, tramandata lungo innumerevoli generazioni di bulli e coatti, deve sempre sposarsi alla futilità dei moventi e delle occasioni. «Te metto le budella in mano», è una delle minacce rituali più consuete, appena prima dello scontro all’arma bianca. E in men che non si dica c’è qualcuno che rimane a terra, e qualcuno che corre via, senza guardarsi indietro.
Appena dopo la corsa dei cavalli lungo via del Corso, culmine del Carnevale, è questa scenetta rapida e violenta, dall’indefinibile connotato rituale, a catturare l’attenzione dei tantissimi illustri stranieri che hanno visitato Roma nel corso dei secoli. Non mancano all’appello, quando si tratta di riferire qualche «fattaccio» di coltello, né Goethe né Gogol’, né James né Stendhal. Tra tutti, è forse quest’ultimo il maggiore responsabile di quello che si potrebbe definire il «folklore del coltello».
L’anarchia morale dei romani stimolava il grande romanziere francese alla maniera di una droga potente, scoprendogli i vasti confini di una vita governata da piaceri e passioni, libera dal senso di colpa. Questa idealizzazione morale va di pari passo con l’idealizzazione del popolo, ed è tra il popolo, osserva Stendhal nelle Passeggiate romane, che «la pugnalata» è un gesto frequente, non nell’aristocrazia costretta dal suo ruolo a un’esistenza fittizia, dissanguata dalla finzione.
Viene da chiedersi che cosa, di fronte all’irrazionalità e alla violenza contemporanee, impedisca di ricorrere, se non per allusione ironica e contrasto, a un’interpretazione romantica come quella di Stendhal. La verità, tristissima, non riguarda solo i coltelli e il loro impiego, ma quel concetto di «popolo» sul quale si impernia tutta l’epica romana delle «lame».
Quando citiamo il popolano di Pascarella, dobbiamo sempre ricordare che è il rappresentante di un’umanità ingenua e leale, capace di onore, dotata del senso della responsabilità individuale. Nulla a che vedere con l’esercito di zombie, infarciti di coca e retorica xenofoba, né poveri né ricchi, né adulti né bambini, che infesta le notti romane di oggi. Nessuno Stendhal potrebbe tentare, nemmeno per scherzo, l’apologia di questa gentaglia.
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