Gianluca Paolucci, La Stampa 1/5/2009, 1 maggio 2009
Lunedì, nel cuore della trattative per Chrysler, Sergio Marchionne si è ritagliato due ore di libertà
Lunedì, nel cuore della trattative per Chrysler, Sergio Marchionne si è ritagliato due ore di libertà. A Toronto per definire il ruolo delle autorità canadesi nell’accordo, prima di ripartire è andato al Topiary’s Steak and Seafood Restaurant, vicino all’aeroporto, per mangiare una bistecca con il presidente di Chrysler Tom LaSorda, il numero uno del sindacato canadese Ken Lewenza e altre quattro persone. «Forse voleva vedere se avevamo le corna in testa», racconta Lewenza, che con Marchionne nelle settimane scorse aveva avuto qualche scambio d’opinioni piuttosto secco sulla necessità che il suo sindacato facesse concessioni importanti per permettere la sopravvivenza di Chrysler. O forse voleva solo mangiare una bistecca nella città dove è cresciuto, mentre si approssimava a chiudere una trattativa che potrebbe portare la Fiat al centro di un sistema di alleanze tale da farne il secondo produttore di auto dietro Toyota. Giunto quasi al termine di un mese che lo ha visto attraversare l’Atlantico tre volte in entrambe le direzioni, quel lunedì sera Marchionne ha ripetuto anche a Lewenza quello che lui e il vicepresidente del gruppo, John Elkann, vanno dicendo da tempo: i grandi produttori di auto sono destinati a diventare non più di sei entro i prossimi 24 mesi e Fiat vuole giocare la partita da protagonista. Quello che il manager non ha detto a Lewenza è che proprio l’accordo con Chrysler è la pietra angolare intorno alla quale costruire i prossimi 2 anni di aggregazioni. Un’operazione che rappresenta «un momento storico sia per Fiat che per l’industria italiana», ha detto ieri Marchionne, «un significativo passo avanti per costruire nuove e solide fondamenta per il futuro». Con Chrysler, la Fiat di Marchionne prende per mano un produttore con una capacità da 4 milioni di auto all’anno, che adesso ne vende circa un terzo e che andrà ristrutturato per produrne una quota tra due milioni e due milioni e mezzo. Con marchi «incredibilmente forti», come ha raccontato lo stesso Marchionne a margine del cda di Fiat la settimana scorsa, come Jeep, Dodge e Chrysler. Ma con problemi finanziari enormi, con una carenza cronica di nuovi modelli adatti alle trasformazioni del mercato e con una forza lavoro, dagli operai ai colletti bianchi, che aspetta solo di essere rimotivata dopo il matrimonio fallito coi tedeschi di Daimler-Mercedes e dopo l’arrivo ai piani alti dell’enorme stabile di Auburn Hills dei ragazzi di Wall Street, i manager del fondo d’investimento Cerberus. Gente che da queste parti, tra le colline basse del Michigan operaio, non sta molto simpatica. Una situazione generale non molto dissimile, a pensarci bene, da quella che lo stesso Marchionne ha trovato arrivando a Torino dalla Svizzera, cinque anni fa. Con la differenza di non avere nessuna alternativa, a parte l’alleanza con Fiat, per continuare a esistere. Senza Chrysler, senza la prospettiva di 4 milioni e mezzo di auto prodotte (sommando a Fiat la quota della società americana ristrutturata), Fiat avrebbe probabilmente dovuto rassegnarsi ad un ruolo da comprimario. Con Chrysler, da domani, Marchionne potrà mettersi al lavoro per convincere i tedeschi che da Torino può arrivare anche la soluzione ai problemi della Opel, controllata da General Motors in cerca di un salvatore. E farsi avanti anche per le attività della stessa General Motors in Sud America, dove Gm è ben radicata e è il terzo produttore in Brasile, paese chiave della regione il cui mercato dell’auto fatto dal testa a testa tra Volkswagen e la stessa Fiat. Per arrivare così a superare la soglia dei 6 milioni di auto prodotte per guardare al ruolo di secondo produttore globale dietro Toyota. Raccontandolo, sembra quasi facile. Oggi con Chrysler il ritorno da protagonista in Nord America, domani un bel pezzo di Gm per consolidarsi in Europa (con Opel potrebbe arrivare il tetto di un milione di auto per singola piattaforma, altro obiettivo indicato dal Lingotto) e in Brasile, il gioco è fatto. Magari cercando altri alleati, disponibili anche a rinunciare, come ha ricordato John Elkann pochi giorni fa, alla quota di controllo della famiglia Agnelli nel gruppo per costruire un «campione globale» dell’auto nel mondo che uscirà dalla crisi. La realtà è molto più complicata e Marchionne lo sa bene. Gestire questo processo non sarà facile, servono tempo e competenze manageriali da parte del gruppo Fiat. Del primo non c’è n’è molto, delle seconde giura di sì, al punto da innervosirsi ogni volta che qualcuno, in privato, mette in dubbio le capacità dei manager del Lingotto di giocare contemporaneamente su due, tre, forse quattro tavoli. Davanti alla bistecca di Toronto, Marchionne ha detto a Lewenza di «non essere uno scommettitore». Ma non è neppure un pokerista, come lo ha definito l’Economist. Piuttosto, come sanno i pochi amici torinesi, è un giocatore di scopone. Da ieri ha in mano carte buone, la partita vera inizia adesso.