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 2009  maggio 01 Venerdì calendario

Senza qualche obiettività fotografica e statistica, le "operazioni nostalgia" rischiano di sembrare un rimpianto da vecchietti: ah, i cieli e i mari dei nostri vent´anni, anche le ciliegie erano più buone, e le ragazze più belle

Senza qualche obiettività fotografica e statistica, le "operazioni nostalgia" rischiano di sembrare un rimpianto da vecchietti: ah, i cieli e i mari dei nostri vent´anni, anche le ciliegie erano più buone, e le ragazze più belle. Ma i paragoni si fanno quotidiani e ossessivi, nella Milano attuale, "capitale" soltanto della Moda, per pochi giorni all´anno, e con la prospettiva (o incubo) dell´Expo universale per il 2015. Per la maggior parte del Novecento, infatti, Milano veniva normalmente definita la "capitale morale" dell´Italia intera: a causa dei grandi editori e dei grandi giornali, nonché delle maggiori banche e industrie del Paese. Vigeva la retorica proverbiale, per cui "chi volta el cuu a Milan, el volta al pan". Si riscontrava ancora, insomma, il tradizionale divario con Roma: normalmente vista e vissuta come capitale burocratica e impiegatizia, sonnolenta e provinciale e dialettale cheap. Dunque, meta di ambizioni più sfaticate e modeste: anche perché poi capitale del cinema e della Dolce Vita, di foto e gossip giornalistici intorno alla Hollywood-sul-Tevere, con posti fissi alla Rai. E orari serali e mattutini addirittura spagnoli, in contrapposizione all´assillante «lavurà» dei lombardi d´ogni ceto. A Milano, nei primi anni Cinquanta, ho studiato e mi sono laureato in Diritto Internazionale. La Facoltà di Legge, a causa dell´Università in macerie dopo i bombardamenti, era allogata nel Reale Collegio delle Fanciulle, in via della Passione: donde, facili jokes studenteschi. (Ma anche minuzie rivelatrici d´epoca. Le fanciulle - cioè un liceo femminile fondato da Maria Teresa e laico ma rigido - erano ristrette in un´ala di questo palazzo Archinto, con la proibizione di parlare con noi studenti. Una mattina, una fanciulla saluta alcuni ragazzi, e viene subito convocata e rimproverata dalla preside. «Ma sono compagni di mio fratello, ieri sera erano al suo compleanno in casa nostra, senta pure la mia mamma». «Non importa, qui bisogna osservare le regole», fu la risposta). A pochi passi, in piazza San Babila (che gli intellettuali del Sud inavvertitamente chiamavano «Santa Babìla», con orrore dei tramvieri), nell´indimenticabile Teatro Nuovo diretto dal grande impresario Remigio Paone si svolgevano i Pomeriggi Musicali, con direttori e solisti poi leggendari e mitici: Walter Gieseking, Arthur Rubinstein, Wilhelm Backhaus, Wilhelm Kempff, Clara Haskil, Edwin Fischer, Otto Klemperer, Sergiu Celibidache, il giovane Benedetti Michelangeli, il vecchio Alfred Cortot. E lì stesso, in serata, le mirabolanti riviste di Wanda Osiris o di Totò, i migliori spettacoli di Luchino Visconti (Morte di un commesso viaggiatore, Un tram chiamato Desiderio) con la Compagnia Morelli-Stoppa, Marcello Mastroianni, Giorgio De Lullo... Tutto a prezzi accessibili, e senza necessità di prenotazioni. Alla Facoltà, negli intervalli fra le lezioni, si riunivano i vari crocchi specializzati: calcio, ballo, poker, puttane, jazz, tennis, mondanità, musica. Commenti maniacali su ogni minuzia, nelle partite e nei giochi, o sugli acuti e i gesti dei soprani alla Scala. E qui, anche nelle stagioni supreme di Maria Callas, si compravano i biglietti pochi minuti prima, come al cinema. Perduravano infatti i vecchi pregiudizi familiari contro l´opera tradizionale, condivisi anche negli scritti giovanili di Carlo Emilio Gadda e Aldo Palazzeschi: il melodramma considerato non come l´equivalente italiano del romanzo ottocentesco francese e inglese, o del musical novecentesco americano, quale struttura portante e citabile di un´identità nazionale provvista solo di Leopardi e Manzoni e Carducci, e poco più. Beffato, invece, come esibizione ridicola di tenori vecchi, soprani grassi, costumi grotteschi, «frin - fron» di orchestre scadenti, parate guitte di tutti i portinai del quartiere che intonano «Partiam! Partiam!» senza fare un passo. Qui era tipico l´atteggiamento di un fratello di mia nonna, che abitava in centro sopra l´appartamento del musicista Umberto Giordano, autore celebrato di Andrea Chénier e Fedora, e i più grandi cantanti per le serate in casa. Allora, il mio prozio: «Milano è diventata una città incivile! Tutte le sere, qui sotto, Gigli e Caniglia e altre canaglie!». (Ed era stato espulso dall´Università di Torino giacché per una stupida scommessa studentesca entrava nelle aule a cavallo). Alla Scala, spesso mezza vuota, erano però spettacolose e ricchissime le stagioni del dopoguerra, governate dal soprintendente-mecenate Antonio Ghiringhelli. Basterebbe recuperare le pagine dei programmi di teatro e cinema sul «Corriere della Sera», in quegli anni di boom economico e culturale soprattutto milanese, nel dopoguerra, quando non c´era ancora la televisione. L´epoca migliore del Piccolo Teatro di Grassi e Strehler, col trionfo epocale dell´Opera da tre soldi, e una vasta borghesia giovanile che si proclamava «epica» e brechtiana e progressista all´avanguardia prima della «alienazione da non perdere assolutamente» alla moda di Antonioni. Ma intanto, le fastose e minuziose ricostruzioni della «fine di un´epoca», da parte di Luchino Visconti, sempre più aristocratico e decadente e radical chic. Il successo popolare più colossale, soprattutto negli anni Sessanta, spettò ai «Legnanesi», operai tra le fabbriche e gli oratori nella nebbiosa Brianza, e imitatori en travestì delle riviste di lusso. Brechtiani inconsci, e involontari anticipatori dei «Leghisti» alla fine del secolo: cioè quei ragionieri e geometri delle "banchette" e "fabbrichette" regionali che gestiscono il potere lombardo in mancanza di una leadership dei "palazzi" milanesi. E d´altra parte, mai lasciano le loro cittadine per seguire Berlusconi (o Craxi, o Mussolini) nelle calate a Roma. Con l´omologazione televisiva e scolastica dell´italiano più basilare poi, non si sono soltanto perdute le infinite sfumature ancestrali e istintive fra i tanti sinonimi disponibili nei dialetti di ogni antica piccola capitale, comuni e identici fra notabili e popolo. E qui andrebbe osservato che soprattutto il milanese e il napoletano e il veneziano possedevano un sense of humour atavico nelle battute verbali spontanee (e poi, tramandate lì) che non si riscontra mai negli altri dialetti italiani. Infatti, il "romanesco" o "romanaccio" risulta rurale e pecoreccio anche fra i principi, e nelle memorie del Grand Tour, mentre il "romanino" (solo labiale e non addominale), estinto nei lignaggi, riappare fra le manicure e sciampiste da sketch. A Firenze, da sempre, le arguzie e facezie sono acri e taglienti; mentre a Bologna, anche fra le vecchie dame, suonano sboccate e volgari. A Torino e a Genova, non si ricordano motti di spirito. Qualche esempio tramandato, nella Milano dialettale. Il centenario conte Greppi, ricordato a Stresa da Hemingway in A Farewell to Arms, dopo le esequie dell´amata moglie in San Babila, agli amici che affettuosamente lo accompagnano al Clubino: «E così, fra una roba e l´altra, anche oggi abbiamo fatto l´ora del risotto». E una marchesa famosa perché fra le due guerre, quando non esistevano le radio in macchina, né le autostrade, ingaggiava solo autisti con bella voce, per farsi cantare arie e romanze, fra Milano e Sanremo e ritorno. Poi, sotto i bombardamenti alleati che distruggevano la Scala nel ”43, per rincuorare la servitù atterrita nelle cantine del palazzo: «Coraggio, tranquilli, alla fine ci daran la Corsica». E un´altra dama, appena operata alla cataratta, in dialetto strettissimo: «Finalmente vedo come son belli i miei tappeti e come son brutte le mie amiche». Nella grande editoria milanese, imperavano i vecchi fondatori: il vecchio Mondadori, il vecchio Rizzoli, carichi di autori Nobel e di successi nelle collane economiche. Ma naturalmente erano attraenti i più giovani, e personalizzati per passione e precisione in tutte le scelte: dagli autori alle collane alla grafica alle copertine e ai paratesti o blurbs. Direttamente, appassionatamente, per vero trasporto e slancio, senza direttori o funzionari o intermediari. Con Giangiacomo Feltrinelli, più d´una decina di libri, combinati insieme, lì, al tavolo. E con Livio Garzanti, poi, quasi altrettanti. Come normalmente si usava, prima dell´era dei dirigenti. Un rapporto invero felicissimo con Valentino Bompiani, grande editore inventivo in una generazione più anziana. Era vispissimo e innovantissimo. Mi affittò (per più di trent´anni, poi) l´appartamento della sua mamma, al pianterreno del palazzetto in via San Primo, che con la sua approvazione foderai con le stesse tappezzerie usate da Cecil Beaton per lo studio del Professor Higgins in My Fair Lady. Ma quando gli regalavo qualche catalogo di esposizioni straniere, lo sfogliava, novantenne, come per migliorare l´impaginazione in ogni pagina. Si era proprio nel futuro «quadrilatero della moda»: lì davanti, via S. Andrea e via Spiga, con piccole cartolerie e salumerie, buone trattorie, materassai nei cortili, e la casa editrice Garzanti, dove presto sarebbero arrivate le boutiques di scarpe e valigie griffate, come negli aeroporti di lusso. (Del resto, anche il primo attichetto che affittai a Roma poco dopo - all´angolo tra le vie Frattina e Mario de´ Fiori - aveva lì sotto addirittura i carbonai). E naturalmente, Milano capitale dell´architettura e del design: dagli illustri anziani - Gio Ponti, Piero Portaluppi, Giovanni Muzio, Ernesto Rogers e i BBPR, i Castiglioni, Marco Zanuso, Piero Fornasetti, Bruno Munari... - agli amicissimi coetanei Gae Aulenti e Vittorio Gregotti. Con lui, mettemmo in scena nel 1967 una Carmen allora "flop" al Comunale di Bologna, ispirandoci alle "stilizzazioni emblematiche" di Roland Barthes, che passò le settimane di prova con noi, beato e ancora sconosciuto in città, anche con ostentata ignoranza reciproca col maestro Pierre Dervaux, che al ristorante ostentatamente leggeva Les Trois Mausquetaires al tavolo vicino. Ivi, gran pranzo con gli amici da tutta l´Italia, per festeggiare il flop: alla vigilia del ”68, il pubblico borghese aveva fischiato Escamillo perché portava una "E" sulla maglietta: Micaela perché (abbigliata da Giosetta Fioroni) portava uno zainetto e gli occhialini tondi: il Dancairo e il Remendado perché («fuori i capelloni!») indossavano le solite parrucche da trovarobato degli armigeri medievali. (Ma Carmen, invece delle solite nacchere, agitava discretamente delle manette di cuoio sado-maso...). Soprattutto, in quella Milano del boom, c´erano le presenze appartate ma avvertite degli scrittori e poeti: Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, premi Nobel nonché recensori giornalieri di musica e di teatro; Dino Buzzati, anche pittore e critico di pittura; Elio Vittorini, editor di narrativa presso vari publisher; Mario Soldati, affaccendatissimo nelle più varie attività di letteratura e spettacolo; Riccardo Bacchelli e Carlo Bo, patriarchi e pundits fin dalle epoche precedenti; Enrico Emanuelli, curatore delle pagine letterarie del «Corriere della sera»; Vittorio Sereni, poeta e direttore presso Mondadori; Franco Fortini, professore e polemista full time; e i più giovani, pressoché miei coetanei Giovanni Testori, Ottiero Ottieri (che lavorava all´Olivetti), Goffredo Parise (che lavorava da Longanesi), il poeta Giovanni Raboni traduttore di Proust, Giuliano Gramigna prestigioso critico letterario... Mostre indimenticabili nel semidistrutto Palazzo Reale milanese: oltre all´indispensabile Picasso (con seguaci divisi tra picassiani e pique-assiette), Roberto Longhi presentava Caravaggio e i Caravaggeschi, i Pittori della Realtà in Lombardia (Moroni, Baschenis, Fra Galgario...), l´Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza... E in fine di pomeriggio, a Brera! Cioè, al Giamaica, il nostro "Flore". Tutti i giovani artisti e scrittori del momento, compresi Piero Manzoni e Ugo Mulas, amici oggi "mitici", in un gran pullulare di fotografi, redattori, giovani pittori neo-astrattisti o neo-figurativisti, disegnatori di radio o macchine da scrivere... E lì, divertendosi molto come piccolo boss locale e grand pivot culturale e pubblicistico, il leggendario Pietrino Bianchi, influentissimo critico cinematografico e letterario sul «Giorno», autorevole consigliere dell´editore Garzanti (insieme al collega parmigiano Attilio Bertolucci, fine poeta, padre del regista Bernardo, e fautore dei successi editoriali di Gadda e Pasolini). E anche direttore del settimanale povero ma snob «Settimo Giorno», e redattore-capo della sofisticata «Illustrazione Italiana», house-organ di Garzanti. Nonché molto amico dei Longhi. D´estate, al Forte dei Marmi, in un caffè di culto ma assai dimesso, ci si poteva trovare, verso sera, ammessi ai tavolini ove sedevano in abiti modesti, Roberto Longhi e la consorte Anna Banti, Bianchi e Bertolucci con le mogli, il pittore Carlo Carrà, il celebre critico fiorentino De Robertis, il narratore locale Enrico Pea, e altri avventori toscani e parmensi in baschetti più o meno illustri o giovani. Così, discorrendo fra camparini e cinzanini su testi di Bassani e Pasolini e Testori e Calvino e Citati e Zolla (e magari miei), nascevano interi numeri di «Paragone», la rivista più importante per la letteratura, e certamente l´ultima fatta a mano e a voce. (Storie ormai antiche per la letteratura italiana moderna, ma forse interessanti quando una formazione intellettuale giovanile coincise con una fase culturale buonissima di una città che ora appare a se stessa in perdita e ricerca di identità). Il testo che pubblichiamo di è uscito in una versione più estesa sul Nouvel Observateur di questa settimana