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 2009  aprile 29 Mercoledì calendario

QUANDO IL MEGLIO E’ NEMICO DEL BENE


Il risanamento del sistema finanziario è alla nostra portata? La risposta è sì. Ciò che non possiamo permetterci è non risanarlo. La vera questione, semmai, è quale sia il modo migliore per farlo. Ma risanare il sistema finanziario, per quanto essenziale, non è sufficiente.
L’ultimo Rapporto sulla Stabilità finanziaria mondiale del Fondo monetario internazionale fornisce un’analisi convincente e sconsolata sullo stato del sistema finanziario. Lo staff ha alzato le stime sulle svalutazioni a circa 4.400 miliardi di dollari (3.368 miliardi di euro). Ciò è dovuto in parte al fatto che il Rapporto conteggia le stime sulle svalutazioni degli asset europei e giapponesi – rispettivamente 1.193 miliardi di dollari e 149 miliardi di dollari – e degli asset dei mercati emergenti (340 miliardi di dollari) posseduti dalle banche delle economie mature. Un altro motivo è che le svalutazioni degli asset originati negli Stati Uniti sono balzate a 2.712 miliardi di dollari dai 1.405 miliardi dello scorso ottobre e dai 945 miliardi dell’aprile 2008.
Per contestualizzare tutto ciò, le svalutazioni stimate dal Fondo monetario sono equivalenti a 37 anni di assistenza ufficiale allo sviluppo calcolati sulla base dei livelli del 2008. Le svalutazioni stimate sugli asset europei e americani, posseduti in maggioranza da istituzioni localizzate nelle due regioni, sono equivalenti al 13% del loro Pil aggregato.
Il Fondo monetario internazionale ha calcolato anche il fabbisogno di capitale delle banche. Il punto di partenza sono le svalutazioni annunciate a fine 2008, pari a 510 miliardi di dollari negli Usa, 154 miliardi nell’Eurozona e 110 miliardi di dollari nel Regno Unito. Il capitale raccolto alla fine del 2008 è stato invece di 391 miliardi di dollari negli Usa, 243 miliardi di dollari nell’eurozona e 110 miliardi di dollari nel Regno Unito. Ma il Fondo monetario stima svalutazioni aggiuntive nel 2009 e nel 2010 per 550 miliardi di dollari negli Usa, 750 miliardi nell’eurozona e 200 miliardi di dollari nel Regno Unito. A fronte di tutto ciò, il Fondo calcola gli utili netti non distribuiti a 300 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 600 miliardi nell’eurozona e 175 miliardi di dollari nel Regno Unito.
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Il Fondo monetario evidenzia che il rapporto tra il capitale ordinario complessivo e le attività totali - un indicatore che gli investitori stanno gradualmente sostituendo con ratios ponderati sul rischio più sofisticati e tendenzialmente più affidabili - era del 3,7% negli Usa alla fine del 2008, ma del 2,5% nell’eurozona e del 2,1% nel Regno Unito.
Il Fondo è arrivato così alla conclusione che il capitale aggiuntivo necessario per ridurre la leva a un rapporto di 17 a 1 (o in alternativa per portare il capitale ordinario al 6% delle attività totali) ammonterebbe a 500 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 725 miliardi nell’eurozona e 250 miliardi nel Regno Unito. Con una leva di 25 a 1, l’infusione di capitale necessaria sarebbe di 275 miliardi di dollari negli Usa, 375 miliardi di dollari nell’eurozona e 125 miliardi nel Regno Unito.
Nella terribile situazione in cui ci troviamo, le chance di raccogliere cifre di questa entità sul mercato sono prossime allo zero. Una ragione è che potrebbero addirittura essere poche. Dopo tutto, il Fondo monetario stima che le svalutazioni potenziali dei soli asset americani sono cresciute già di tre volte in appena un anno. Non sarebbe sorprendente se la cifra salisse ancora.
Inoltre, non sono queste le sole somme di cui si ha bisogno. I Governi hanno finora fornito alle banche 8.900 miliardi di dollari in finanziamenti attraverso le lending facilities, le garanzie e i piani di acquisto di asset. Ma questa cifra è pari a meno di un terzo del loro fabbisogno di finanziamento.
Il Fondo monetario, basandosi sull’assunzione che i depositi crescano in linea con il Pil nominale, stima che il refinancing gap delle banche - cioè il rifinanziamento del debito a breve all’ingrosso più le scadenze del debito a lungo termine - crescerà dai 20.700 miliardi di dollari di fine 2008 a 25.600 miliardi di dollari alla fine del 2011, pari a poco più del 60% dei loro attivi totali. Tutto ciò somiglia a una ricetta per una forte contrazione dei bilanci. Inoltre, queste cifre non tengono conto della scomparsa dei prestiti cartolarizzati attraverso il cosiddetto "shadow banking system" che ha rivestito un’importanza rilevante negli Stati Uniti.
Il Fondo monetario fornisce anche le nuove stime sui costi fiscali finali delle operazioni di salvataggio. Nella parte alta dei costi fiscali troviamo gli Usa e la Gran Bretagna, rispettivamente al 13% e al 9% del Pil. Altrove, il costo è inferiore. E per fortuna, si tratta di somme abbordabili. Anche comparandole con l’impatto avuto dalla recessione sul debito pubblico, restano somme gestibili. In ogni caso, i costi dovrebbero aumentare. Ma la probabilità più concreta è che i costi fiscali di una recessione profonda siano sostanzialmente maggiori dei costi dei salvataggi. Pensare di rifiutarsi di salvare il sistema finanziario perchè troppo oneroso è un classico caso di «risparmiare un penny per perdere una sterlina».
Una ragione migliore per rifiutarsi di salvare le banche è l’effetto controproducente sull’incentivo a una sana gestione. L’alternativa dovrebbe essere quindi la bancarotta. Jeremy Bulow della Stanford University e Paul Klemperer della Oxford University hanno creato uno schema che lo dimostra chiaramente.
Le attività più di valore di ogni istituzione finanziaria dovrebbero essere separate in una «banca-ponte», lasciando le passività (tranne i depositi) nella vecchia banca. Ai creditori verrebbero date azioni della nuova banca. I Governi potrebbero gratificare alcuni creditori fino al totale dovuto, invece di pagare tutti nella stessa misura come avviene oggi.
Opinionisti autorevoli sostengono che sarebbe meglio garantire un completo ristoro ai creditori delle istituzioni sistemicamente importanti. La logica di questo ragionamento è che sarebbe l’unico modo per prevenire ulteriore panico. L’obiezione non è il costo fiscale. che al termine di questo processo emergerebbe una serie limitata di istituzioni «troppo grandi per fallire». I loro creditori sarebbero portati a credere intuitivamente che il loro debitore è il Governo. E questa sarebbe la strada migliore per provocare catastrofi ben più gravi in futuro.
Anche imporre ai creditori perdite pesanti è effettivamente rischioso. Probabilmente, una strada simile deve essere seguita simultaneamente ovunque. Soltanto dopo che sarà chiaro che le banche sopravvissute sono sane, allora tornerà la disponibilità a prestare loro denaro senza garanzie.
Ancora peggiore della scelta tra queste due fosche alternative è il fatto che la ripresa sarà probabilmente lenta, qualunque strada venisse percorsa. Come notava l’ultimo World Economic Outlook in un importante capitolo, le recessioni che seguono le crisi finanziarie sono più pesanti delle altre. Inoltre sono sincronizzate a livello globale. Ma ora stiamo passando attraverso una recessione globalmente sincronizzata, contestuale a una pesante crisi finanziaria che nasce dai Paesi cardine dell’economia mondiale, a cominciare dagli Usa. Questo è dunque il mix giusto per una lunga recessione e una debole ripresa.
Qualunque cosa si faccia per il sistema finanziario, la riduzione della leva (deleveraging) sarà all’ordine del giorno. La posizione della Gran Bretagna, sotto questo profilo, appare pesante. Ma anche quella degli Stati Uniti non è da meno, persino confrontandola con la situazione in Giappone negli anni 90.
Comunque sia, le autorità hanno deciso di salvare il sistema finanziario con i soldi dei contribuenti. Praticamente tutti i Paesi coinvolti dovrebbero poterselo permettere, almeno secondo le stime del Fondo monetario. A questo punto, dopo aver preso la scelta fondamentale di evitare le bancarotte, i Governi devono risanare i propri sistemi finanziari nel modo più veloce possibile.
Sarà comunque dimostrato che si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente per restituire all’economia un tasso di crescita robusto. La sbornia di credito rende inevitabile la riduzione della leva. Ma questo processo è a malapena cominciato. E quanti sperano che si possa tornare rapidamente a ciò che era ritenuto normale due anni fa, resteranno delusi.