Daniela Minerva e Roberta Villa, L’Espresso, 7 maggio 2009, 7 maggio 2009
DANIELA MINERVA
e ROBERTA VILLA PER L’ESPRESSO 7 MAGGIO 2009 Febbre da paura America. Europa. Oriente. Australia. Il virus dell’influenza suina ha colonizzato il mondo. E l’Oms dichiara lo stato di allerta. Dopo trent’anni di allarmi, ecco l’epidemia che fa paura. E come difendersi
La pandemia ha l’aspetto lurido di un maiale messicano allevato senza grandi controlli, probabilmente in una promiscuità con gli allevatori e le loro famiglie che non sarebbe nemmeno immaginabile poche centinaia di chilometri più a nord, oltre il muro che divide il grande deserto di Sonora dalla ricchezza americana. Eppure proprio il gigante della scienza medica mondiale questa volta è stato beffato da un virus diventato pericoloso per l’uomo in un qualche allevamento oltre il muro, nel gioco di mutazioni genetiche che lo ha portato dal ceppo aviario a noi, passando attraverso il genoma dei maiali, che come noi sono mammiferi. Gli scienziati lo chiamano H1N1 e, in barba alla mirabolante rete di sorveglianza più potente del mondo, quella messa in piedi dai Cdc, i Center for Diseases Control di Atlanta, è passato dal Messico, dove ha fatto centinaia di vittime e colpito seriamente migliaia di persone a New Yok, in Kansas, California, Texas, Ohio. E da lì è un balzo: nessuno oggi è in grado di dire quante delle migliaia di passeggeri che ogni giorno sbarcano in Europa dagli Usa viaggiava in compagnia di quell’alieno furbo e pericoloso. Finora gli europei colpiti provenivano direttamente dal Messico. In Asia sono in allarme: molta paura a Hong Kong. H1N1 è invece certamente arrivato in Colombia, in Nuova Zelanda, in Israele, in Canada. Insomma, ovunque. Cioè: pandemia.
Mentre il presidente Obama dichiara lo stato di emergenza e l’Organizzazione mondiale della sanità mette in allerta il mondo intero, le autorità italiane sono tranquille. Siamo preparati, dicono. Già, ma a cosa? Il clima è quello di un’inquieta sospensione del tempo, in attesa che il Paziente numero 1 sbarchi a Fiumicino, a Malpensa o anche a Palermo. Perché ci sono pochi dubbi sul fatto che sbarcherà. E ne è convinta persino una scienziata rigorosa come Ilaria Capua, virologa dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, responsabile del Centro di referenza nazionale per le malattie infettive nell’interfaccia uomo-animale, che dice: "Con focolai in zone densamente abitate e in continuo contatto con tutto il mondo come New York è poco credibile che l’Italia o qualsiasi altro paese si possa ritenere al sicuro". Ilaria Capua non è una qualunque: è stata nominata tra le cinque Revolutionary Mind per il 2008 da ’Seed Magazine’, dopo aver ricevuto nel 2007 anche il premio Scientific American 50, assegnato ai 50 ricercatori che più hanno contribuito al progresso della scienza. E tutto grazie a un’idea semplice quanto rivoluzionaria: un archivio elettronico aperto agli scienziati dove sono conservati i dati genetici di tutti i virus dell’influenza umana e animale studiati nel mondo. Agli scienziati non piace condividere i loro dati, ma a lei quel database è sembrato inevitabile: "In un’epoca in cui i virus possono passare in poche ore di continente in continente grazie ai voli aerei, le contromisure devono essere altrettanto rapide e senza confini", commenta.
E ha avuto ragione perché è stato proprio tramite il suo database che gli americani hanno identificato il loro Paziente numero 1 e si sono accorti che quella ventina di persone diagnosticate fino a quel momento come influenzati di fine stagione erano in realtà il nucleo di un’esplosione che andava arginata al più presto. Senza il database della Capua la diffusione del virus dell’influenza suina negli Stati Uniti sarebbe potuta passare inosservata, almeno fino a quando non avesse cominciato a seminare vittime come in Messico. E a quel punto forse sarebbe stato troppo tardi. Perché H1N1 il muro del Texas lo ha passato da parecchie settimane. Spiazzando tutti.
Già perché da anni si aspetta la pandemia. Da anni si guarda a est. E si tengono sott’occhio i volatili. Invece, è andata tutto in un altro modo: il virus killer che rischia di metterci in ginocchio se lo sono coltivato i maiali. A cui nessuno stava prestando grande attenzione dall’altra parte dell’oceano. Anche se, sulla carta, tra gli esperti era comunque ben chiaro che la roulette russa delle trasformazioni del virus avrebbe potuto produrre la sua combinazione fatale non solo tra i volatili, ma anche nelle porcilaie. La stessa Capua aveva messo in guardia le autorità sanitarie statunitensi contro questo pericolo, in un workshop presso i Centers for Disease Control di Atlanta ai primi di aprile. "Il sistema di sorveglianza americano, per quanto molto efficiente, è debole proprio su questo punto: l’allevamento dei suini è completamente scollegato dalla sanità pubblica. Si sono spese decine di milioni di dollari per sterminare anatre portatrici di un virus del tutto innocuo, quando il pericolo poteva venire anche da quest’altra direzione".
Da lì infatti è arrivato. E nessuno tra gli scienziati scommette una lira sul fatto che l’Italia ne sia immune. Così, seppur tra cautele e inviti a non scatenare il panico, monta l’inquietudine. E tutti si voltano indietro al panico-aviaria, ai milioni di euro spesi per accumulare inutili dosi di Tamiflu, allo sforzo di organizzare una rete di sorveglianza. Che fine hanno fatto le misure antiaviaria? Serviranno a fermare il Messicano?
Il sistema di difesa, approntato negli anni scorsi, basato sull’attività di sentinella di 900 medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, sembra avere tutte le carte in regola per funzionare: "Due anni fa ha superato l’esame delle autorità europee per cui è considerato perfettamente all’altezza e integrato con quello degli altri paesi", afferma Emanuele Montomoli, responsabile del laboratorio di Epidemiologia molecolare dell’Università di Siena, uno dei quindici centri di riferimento della rete di sorveglianza italiana.
Sul tappeto, però, c’è un tema attorno al quale gli scienziati non hanno le idee chiare: quanto è pericoloso il Messicano? Se si guarda a ciò che sta accadendo in Messico c’è da aver paura: la gente che contrae H1N1 muore a grappoli. "Se i numeri fossero davvero questi", interviene Montomoli, "la situazione sarebbe gravissima. Paradossalmente, c’è da sperare che gli ammalati siano molti di più: se infatti, come io penso, all’attenzione dei medici sono arrivate solo le persone con le manifestazioni più gravi della malattia, la percentuale di casi letali rispetto al totale sarebbe molto più bassa". In altre parole, il rischio di morire una volta ammalati si abbasserebbe notevolmente, e la mortalità sarebbe molto inferiore alla mannaia dell’influenza aviaria, che ha lasciato in vita solo la metà di coloro che l’hanno contratta dai polli.
Insomma, sembra di dover scommettere sulla scarsa efficienza del sistema di sorveglianza messicano che sottostima il numero effettivo dei malati; e così pare che sia se si crede ai dati provenienti dagli Stati Uniti dove, nonostante l’accurato monitoraggio, la malattia sembra avere un andamento molto più blando. Finora, dei circa 40 casi confermati, pochi hanno avuto bisogno di un ricovero in ospedale e nessuno è morto, sebbene gli esperti ritengono probabile che nei prossimi giorni si registreranno anche là le prime vittime. La differenza potrebbe dipendere dalle diverse condizioni igienico-sanitarie, di assistenza medica o di salute e nutrizione della popolazione, ma non solo. Perché, in effetti, il passaggio del virus nei maiali potrebbe avere in qualche modo ’ammorbidito’ il virus. "La prima impressione", commenta Capua, "è che, se davvero siamo davanti alla pandemia che ci aspettavamo dopo più di quarant’anni da quella del 1968, possiamo dirci fortunati. Se ricalcherà l’andamento che sta avendo sul suolo statunitense non sarà la tragedia che si temeva. Potrebbe assomigliare alle pandemie del 1957 e del 1968, che si sono diffuse in tutto il mondo, ma senza milioni di morti".
Confidando che il Messicano sia ammorbidito, le autorità sanitarie italiane sembrano più preoccupate di evitare il panico che il virus. Si ricordano dell’inutile psicosi che ha messo in ginocchio l’allevamento dei polli qualche anno fa, e ricordano che la malattia si può prendere solo da altre persone che tossiscono o starnutiscono nelle vicinanze, oppure se si avvicinano alla bocca le mani che hanno toccato oggetti appena contaminati. "Quando parliamo di influenza suina intendiamo che il virus ha acquisito nei maiali la capacità di passare all’uomo e di trasmettersi da persona a persona, ma non che la malattia si possa prendere in Italia dai maiali, che non vengono importati vivi dall’estero, né tanto meno mangiandone la carne, anche sotto forma di prosciutto o altri salumi", precisa Capua. Ma sfortunatamente non sarà l’imminente primavera a proteggerci da H1N1. "L’influenza di solito si diffonde in inverno, perché il virus sopravvive all’esterno solo se fa molto freddo", spiega Montomoli: "Questo virus però sembra in grado di sopravvivere anche alle temperature miti".
Dopo tanti allarmi a vuoto forse la pandemia è davvero arrivata. Da ovest invece che da est. Dai suini invece che dai polli. E forse meno arrabbiata di quanto si temesse. I tempi della Spagnola sono passati del tutto, confortano gli scienziati: non c’è stata la guerra a debilitare, siamo tutti ben nutriti, abbiamo imparato a lavarci le mani, abbiamo i farmaci contro il virus e soprattutto contro la polmonite che ne deriva. Se, come sembra, pandemia sarà, la vedremo passare e conteremo i morti solo nei paesi senza reti di protezione. Già, ma a differenza di quanto accade con l’allarme aviaria, o ancora con la Sars, intanto cominciamo a contare anche noi i malati a decine: in Spagna, Gran Bretagna, Usa, Canada...