Mario Pirani, la Repubblica 29/4/2009, 29 aprile 2009
LA CULTURA DELLA CRISI
La crisi economica sta producendo effetti rilevanti sul piano culturale. Due concetti prevalgono. Il primo recita: «Nulla sarà più come prima», nel senso che i rapporti di produzione e di scambio, la distribuzione dei redditi, le condizioni del lavoro dovranno radicalmente mutare per dar vita ad un capitalismo temperato dall´intervento dello Stato, ad una nuova eguaglianza che includa i poveri e gli esclusi.
Il primo recita: «Nulla sarà più come prima», nel senso che i rapporti di produzione e di scambio, la distribuzione dei redditi, le condizioni del lavoro dovranno radicalmente mutare per dar vita ad un capitalismo temperato dall´intervento dello Stato, ad una nuova eguaglianza che includa i poveri e gli esclusi. Chi possa operare una rivoluzione di tal fatta e quali forze siano in grado di farsene carico, non è chiaro.
Per cui l´assunto rimane allo stadio di auspicio, ma questo non significa che non abbia effetti di orientamento e di coagulazione di opinioni che potranno influenzare l´azione di governi, parlamenti, organizzazioni di rappresentanza sociale. Questo è soprattutto vero per quanto riguarda l´intervento dello Stato nell´economia, nella veste di arcangelo salvifico. Il secondo concetto è riassumibile nella chiamata di correo del «pensiero unico mercatista e liberista». La congiunzione dei due concetti («nulla sarà più come prima» e «liberismo sotto accusa») ha il difetto – a mio avviso – di sfociare in un paradigma nettamente ideologico. Il presupposto è che esista una ricetta economica, giusta di per sé in ogni tempo, contrapposta ad una ricetta in nuce errata, escogitata solo per arricchire i ricchi e impoverire i poveri. La crisi che attraversiamo è imputata a quest´ultima, mentre l´altra che chiamerei di «statalismo regolatore», se fosse stata applicata, avrebbe garantito ieri, oggi e sempre un progresso economico, accompagnato da equità e giustizia sociale. L´obiezione che mi permetto di muovere a questa dialettica degli opposti è che non esistono politiche economiche giuste o sbagliate per ogni tempo e luogo, traducibili in ricette valide per sempre, ma teorie e pratiche corrispondenti o incongrue in rapporto alla fase economica in corso, almeno a medio termine. L´errore emerge, a volte, come oggi, in maniera catastrofica, quando gli operatori politici ed economici, gli istituti che dovrebbero segnalare pericoli e mutazioni intervenute, non si rendono conto del cambiamento o non sono in grado d´imprimere la indispensabile svolta. , quindi, più che giusto analizzare, ma con razionale laicità di pensiero, le varie fasi dell´apoteosi della liberalizzazione, coincidenti col processo di globalizzazione, dalla caduta del Muro in avanti. Compreso l´ultimo decennio in cui sono venute meno regole e vincoli.
Se manteniamo uno sguardo d´assieme vedremo allora che il libero afflusso di capitali e mezzi finanziari ha permesso un periodo di sviluppo senza eguali nel mondo, la creazione di centinaia di milioni di posti di lavoro con il decollo produttivo della Cina, dell´India, del Brasile, dell´Est europeo, la pluridecennale crescita americana, la tenuta dell´Europa continentale, con la creazione di quel potente ammortizzatore monetario che si è rivelato l´euro.
Proprio perché tutto ciò era innestato da una creazione crescente di debito andavano assicurate norme che garantissero le possibilità a corto, medio o lungo termine di ammortamento e recupero, a seconda del tipo di investimento.
avvenuto il contrario, basta evocare la conferenza stampa che annunciò l´allentamento della regolamentazione bancaria in America (giugno 2003), dove i rappresentanti delle quattro maggiori agenzie di supervisione si presentarono armati di cesoie per fare a pezzi una colonna di volumi sulla normativa fino allora vigente, affiancati dal capo dell´Office of Thrift Supervision (Ufficio per la Vigilanza sul Risparmio), James Gilleran, che partecipò al falò simbolico, impugnando una motosega. Nel 1999 era già stato abolito il divieto, introdotto da Roosevelt, di fusione tra banche commerciali e banche d´investimento, mentre nel 2000 era stata proibita la supervisione dei derivati finanziari. Nel 2004, poi, la Sec (la Consob Usa) permette di elevare a dismisura i livelli di indebitamento delle banche, fino allora ancorato ad un corrispettivo fra debito e patrimonio non superiore a 12. Con questa nuova «libertà» molte banche raggiungono un livello di debito 40 volte il patrimonio (è il caso Merrill Lynch), un rapporto che rende vulnerabili gli istituti di credito nel momento in cui l´insolvenza dei mutui si fosse materializzata. Un altro dato che spiega l´erosione del sistema regolatorio Usa è rappresentato dai finanziamenti politici lungo l´arco 1998-2008, resi noti a termine di legge. Un decennio in cui le società di revisione hanno conteggiato 81 milioni di dollari in finanziamenti elettorali e 122 in lobbying mentre le banche d´investimento hanno speso 513 milioni in sostegni elettorali e 600 in lobbying.
Mi sembra evidente che non il liberismo del mercato è all´origine della crisi in atto ma lo smantellamento politico di ogni elementare norma di buon senso nella gestione del credito e della finanza. Pesantissime responsabilità pubbliche americane portano il peso dell´odierno disastro. La fame dissennata di profitti facili ha accecato banchieri e risparmiatori, semplici azionisti e squali della finanza. Nuove regole vanno stabilite e imposte su scala internazionale ma non possono più essere di sola matrice Usa.
Da questo punto di vista Romano Prodi, intervenuto ripetutamente in questi ultimi giorni, ha dato una interpretazione più restrittiva ma assai più pregnante dello slogan «nulla sarà più come prima», affermando che le nuove regole potranno essere sancite solo da una nuova leadership internazionale, non limitata al G8, ma comprendente ad eguale livello la Cina, l´India e gli altri grandi attori della scena mondiale. I banchieri americani non vorrebbero ma è appunto questo il terreno del contendere.
Non si tratta, quindi, di ripercorrere l´antica querelle tra statalisti e liberisti e di sbandierare una finta vittoria dei primi nei confronti dei secondi, alla ricerca della palma da assegnare a chi avrebbe avuto sempre ragione nei confronti di chi avrebbe avuto sempre torto.
Quando si afferma che oggi occorre più Stato – ma sarebbe molto più pertinente dire che occorre più governo – non si enuncia alcun verdetto teorico o politico, ma una immediata esigenza pratica. stato giustamente evocato il paragone dei pompieri chiamati a spegnere il fuoco quando la casa brucia, ma sarebbe logico dedurne che allora dovrebbe esser fatto obbligo di mantenere negli edifici un livello di umidità permanente, con l´acqua che scorre dalle pareti notte e giorno, magari con periodici innaffiamenti da parte dei medesimi pompieri, anche quando piove a dirotto e nessun incendio minaccia gli abitanti?
Eppure una pulsione di questo tipo si sta impadronendo di politici, economisti, intellettuali che inneggiano al ritorno dello Stato, spinti a ripercorrere, forse inconsciamente, la grande discussione a cavallo degli anni Trenta, tra chi temeva il fallimento del capitalismo, evidenziato dalla crisi di allora e chi individuava la via alternativa nella pianificazione vittoriosa dell´Urss oppure nel dirigismo delle dittature nazi-fasciste. Certo, quegli edifici totalitari sono crollati e nessuno ne propugna il ritorno, pur tuttavia val la pena porsi il quesito se, soprattutto, dal crollo dell´Urss, prodottosi per implosione interna, non resti oggi che una memoria selettiva, un orrore giustificato dell´aspetto persecutorio e dittatoriale. Rimosso dal ricordo, invece, il fallimento insito nell´ideale della pianificazione economica. Eppure si è trattato del più imponente tentativo mai avvenuto nella Storia di costruire razionalmente il futuro dell´uomo, a partire dalla regolazione scientifica dell´economia, affidando allo Stato, guidato dal Partito, il compito di massimo Ordinatore. L´esperimento si è prolungato per più di settant´anni, si è esteso a vaste zone del mondo, da Mosca a Pechino, da Praga a Cuba, da Berlino alla Corea. La sua rappresentazione ideale e politica ha influenzato mezza Europa occidentale ma dalla glorificazione è ovunque precipitato nel disfacimento più totale. Solo la Cina, con una stupefacente capacità di mutazione dei fini, è riuscita a trasformare la dittatura maoista in un motore che genera e alimenta il suo turbo capitalismo a dimensione planetaria. Anche la socialdemocrazia, laddove ha tardato a liberarsi dell´idea che la diversificazione dal comunismo passava essenzialmente dal crinale della democrazia ma non delle finalità socio-economiche, ha conosciuto un declino con scarse possibilità di recupero.
Tutto questo è stato rimosso dal dibattito odierno come se non fosse mai avvenuto. Un atto mancato, per dirla in termini psicoanalitici, che spiega almeno in parte il ritorno di una nostalgia statalista di stampo salvifico, il recupero di un fall out ancora radioattivo del pianeta scomparso.