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 2009  aprile 29 Mercoledì calendario

PALESTINA: DUE STATI SEPARATI O UNO STATO PER DUE POPOLI


Anni fa la prima pagina del Corriere riportava l’articolo di un notissimo scrittore israeliano, di cui ora purtroppo mi sfugge il nome; egli asseriva che non vi sarà mai pace fino a quando ci si ostinerà a portare avanti trattative per giungere a un accordo basato su «due Stati per due popoli». passato tanto tempo, ma sono sempre più convinto che avesse ragione, proponendo l’unica vera soluzione possibile: la convivenza di entrambi su un solo territorio. Certo è ora difficile stravolgere la storia degli ultimi 50 anni, compreso il sicuro no di Israele a questa prospettiva, ma ritengo che sia ancora più utopistico pensare alla fine del conflitto nei termini attuali.
Luigi Cereda
gigioadsl@alice.it

Caro Cereda,
L’idea di un grande Stato arabo-ebraico, dal Giordano al Me­diterraneo, piacque a Theo­dor Herzl, fondatore del mo­vimento sionista, al filosofo Martin Buber e ad altri espo­nenti dell’ebraismo nel seco­lo scorso. Scomparve dal no­vero delle soluzioni possibili quando questa terra contesa divenne teatro di due strate­gie diametralmente opposte: quella dell’Olp di Yasser Ara­fat, decisa a cacciare gli ebrei dalla regione, e quella del go­verno israeliano, mosso dal­la speranza di creare un «Grande Israele» dal Giorda­no al mare. La situazione sembrò migliorare negli an­ni Novanta, quando ambe­due i contendenti parvero ac­cettare la prospettiva di due Stati destinatati a convivere pacificamente l’uno accanto all’altro. Ma non è sorpren­dente che oggi, dopo le crisi e le guerre degli scorsi anni, qualcuno abbia riproposto la soluzione dello Stato unico. Ne hanno discusso a lungo due studiosi britannici, Tony Judt e Virginia Tilley. Ne han­no parlato più recentemente alcuni esponenti del mondo accademico israeliano e pale­stinese. Il loro modello è il Sud Africa dove bianchi e ne­ri, dopo la fine dell’apar­theid, hanno lavorato per cre­are le condizioni della loro convivenza. Ma un libro dello storico israeliano Benny Morris, ap­parso anche in italiano pres­so Rizzoli («Due popoli, una terra») sostiene che i vecchi contrasti, l’odio, le diverse mentalità culturali e civili, il diverso tasso di accrescimen­to demografico degli ebrei e degli arabi, rendono questa prospettiva impossibile. An­che la divisione della Palesti­na in due Stati, tuttavia, sa­rebbe secondo Morris altret­tanto impossibile. Le difficol­tà sono molte: il fatto com­piuto degli insediamenti ebraici nei territori occupati, la geografia economica della regione e, sempre secondo Morris, l’assoluta indisponi­bilità della grande maggio­ranza degli arabi ad accettare l’esistenza di uno Stato ebrai­co nella loro regione.

Vi è nel suo libro, quindi, un cupo pessimismo. Conti­nuare a perseguire la creazio­ne di due Stati, come gli ame­ricani da Clinton a Obama, è inutile. Discutere con Mah­mud Abbas, presidente del­l’Autorità palestinese, non ha molto senso perché è un leader debole. Hamas è mol­to più rappresentativo, ma non intende riconoscere lo Stato ebraico. Non esiste quindi alcuna soluzione ra­gionevole del conflitto? Ben­ny Morris ritiene che l’unico sbocco politico della crisi po­trebbe essere la creazione di uno Stato giordano-palesti­nese. Il regno di Giordania si allargherebbe sino a com­prendere la Cisgiordania e la striscia di Gaza, avrebbe uno sbocco sul mare, potrebbe ac­cogliere almeno una parte dei rifugiati palestinesi fuggi­ti nel 1948 e nel 1967.

Ciò che più mi piace nel li­bro di Morris è il realismo con cui ha smantellato alcu­ni luoghi comuni della retori­ca e dell’ottimismo ufficiali. Ma occorre essere altrettan­to realisti nel valutare la sua ipotesi di uno Stato giorda­no- palestinese. Non credo che il regno di Giordania sia disposto a rimettere in di­scussione i propri equilibri interni cercando di assorbire almeno 4 milioni di palesti­nesi, e forse molti di più se fosse costretto ad accettare anche i profughi provenienti da altri Paesi arabi. Come ve­de, caro Cereda, sono addirit­tura più pessimista di Benny Morris. E sono tale anche per­ché temo che la crisi palesti­nese nasconda una realtà an­cora più grave: la crisi dello Stato israeliano, minacciato da alcune contraddizioni. uno Stato identitario, cioè esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere lo Stato moderno. Ma ha all’in­terno delle sue frontiere più di un milione di arabi e ha permesso che più di quattro­centomila ebrei andassero a vivere in mezzo a tre milioni di palestinesi. Il problema, in ultima analisi, è demografi­co. Israele è in crisi perché la curva della natalità araba vo­la molto più alta di quella de­gli ebrei e perché la diaspora ha smesso di rispondere ai suoi appelli. Non può essere uno Stato degli ebrei se non è omogeneo. E non potrà mai esserlo se 5 milioni di ebrei desiderano continuare a vivere negli Stati Uniti e persino 130.000 ebrei preferi­scono la Germania a Israele.