Giornali vari, 20 aprile 2009
Anno VI - Duecentosessantasettesima settimanaDall’11 al 20 aprile 2009Fiat La Fiat può effettivamente diventare padrona della Chrysler, secondo un percorso che si sta sviluppando da parecchie settimane e di cui non abbiamo potuto dar troppo conto per via del terremoto
Anno VI - Duecentosessantasettesima settimana
Dall’11 al 20 aprile 2009
Fiat La Fiat può effettivamente diventare padrona della Chrysler, secondo un percorso che si sta sviluppando da parecchie settimane e di cui non abbiamo potuto dar troppo conto per via del terremoto. Gli americani, che avevano ricevuto aiuti per quattro miliardi a Natale, ne vorrebbero altri sei il prossimo 30 aprile. Ma Obama ha bocciato il loro piano di ristrutturazione e imposto non solo l’ingresso della Fiat (su cui a Detroit erano già d’accordo) ma addirittura la leadership di Marchionne. «La Chrysler ha bisogno di un partner – ha detto il presidente degli Stati Uniti - ci vuole un accordo solido che protegga i consumatori americani. So che la Fiat è pronta a trasferire la sua tecnologia di punta alla Chrysler e, dopo aver lavorato in stretta collaborazione con il mio team, si è impegnata a costruire motori e nuove auto a basso consumo di carburante qui in America». Una dichiarazione clamorosa e senza precedenti. I lettori ricorderanno che tra Fiat e Chrysler era già stato firmato un accordo non vincolante in base al quale Fiat avrebbe ricevuto un quarto di Chrysler senza esborso di denaro ma solo in cambio del trasferimento in America delle sue piattaforme produttive e del suo know how (ingegneri eccetera). Avrebbe poi potuto salire fino al 55% sborsando 25 miliardi. Obama, pur spalancando le porte ai torinesi, ha preteso un po’ meno invadenza: il 20% subito e nessuna ulteriore scalata all’azionariato fino a quando i 10 miliardi di aiuti non saranno restituiti.
Marchionne Adesso la partita è alle battute finali. Marchionne ha fatto su e giù con Washington, lavorando a stretto contatto con i tecnici della Casa Bianca per approntare un piano che meriti l’approvazione del Presidente. La questione principale, a questo punto, sembra soprattutto finanziaria: le banche, che hanno crediti verso Chrysler per sette miliardi di dollari, dovrebbero accontentarsi di riceverne solo uno. I sindacati, che nel corso dei decenni hanno reso Detroit una Mecca operaia, dovranno accettare licenziamenti, taglio dei salari e un’assistenza sanitaria poco più che nulla. Insomma, dovranno adeguarsi agli standard che quelli della Toyota praticano nei loro stabilimenti americani (tutti lontani da Detroit). Fanno resistenza tutti e due: le banche sostengono che a questo punto gli conviene il fallimento, dal quale ricaverebbero almeno 3-4 miliardi; i sindacati fino al momento in cui scriviamo resistono, specialmente quelli che rappresentano i lavoratori canadesi. Ma l’aria è che alla fine cederanno entrambi. Alle banche gli uomini di Obama hanno ricordato che sono state a loro volta aiutate dallo Stato, e molto generosamente: sarebbe dunque incomprensibile un loro atteggiamento negativo, che costerebbe decine di migliaia di posti di lavoro. I sindacati riceveranno, in cambio dei loro crediti sanitari, una quota del 20% della stessa Chrysler, inaugurando un’era davvero nuova nella storia degli Stati Uniti, quella dei lavoratori che si fanno padroni della loro stessa azienda.
Numeri Le due case, insieme, occupano 240 mila persone distribuite in 208 stabilimenti. Una volta unite, la loro forza commerciale sarà davvero imponente. Fiat porta 6.500 concessionati distribuiti in 190 paesi. Chrysler 4.900 in 125 paesi. Fiat venderà negli Stati Uniti la 500 e i modelli dell’Alfa Romeo, un’auto che laggiù è un mito (Dustin Hoffman ne Il laureato guidava una Duetto). Per vedere la prima automobile Chrysler-Fiat bisognerà aspettare almeno due anni. Non è semplice tentare di immaginarla: loro sono specializzati nei macchinoni, tipo gip o suv, auto che consumano e inquinano. Noi, tutto l’inverso.
Referendum 1 La faccenda del referendum è in ebollizione mentre scriviamo. Esclusa ormai la data del 7 giugno (sono scaduti i termini) restano in ballo le date del 14 o del 21 giugno oppure, nientedimeno, il rinvio all’anno prossimo. Polemiche feroci sui costi: i referendari e il Pd, basandosi su calcoli abbastanza balordi del sito la voce.info, dicono che non aver accorpato alle europee il voto referendario ci costerà 400 milioni, «che si sarebbero potuti dare ai terremotati». Questo numero si ricava però calcolando anche – per esempio - il valore del tempo che uno impiega per andare al seggio e questo tipo di denaro, naturalmente, non si potrebbe versare a favore dell’Abruzzo. La cifra più ragionevole dello spreco sembra essere quella di cento milioni, che non è poco ma è comunque un quarto di quella che viene sbandierata da tutti quanti. Il 21 giugno il referendum sarebbe abbinato ai ballottaggi delle amministrative e, con una trentina di città coinvolte, vi sarebbe ancora una chance per il raggiungimento del quorum. Per tenere la consultazione a quella data, che oltrepassa il tempo massimo previsto dalla legge (15 giugno), ci vuole però un decreto e la Lega si prepara a dar battaglia per bocciarlo: il ”no” di Camera e Senato garantirebbe la chiamata automatica alle urne per il 14. E il 14 – pensano tutti – andrebbero a votare sì e no un terzo degli italiani: addio quorum. L’ipotesi di far slittare tutto all’anno prossimo – al momento la meno probabile – è forse fuori-legge e comunque richiede l’assenso del Comitato del Referendari (un organismo costituzionale). Tifano per lo slittamento soprattutto quelli di An e, sotto sotto, anche Berlusconi: il referendum è infatti un’ottima arma di pressione sulla Lega, e poterla brandire per un altro anno è tentante.
Referendum 2 A proposito, il referendum taglia la legge elettorale in modo tale che, vincendo i sì, il premio di maggioranza non vada più alla coalizione ma alla lista più votata (ecco la perdita di peso della Lega), sia precluso del tutto l’accesso in Parlamento ai partiti che non prendono almeno il 4 per cento alla Camera e l’8 per cento (regionale) al Senato, non sia più possibile per lo stesso candidato presentarsi contemporaneamente in più collegi.
Via Poma La Procura di Roma vuole il processo per via Poma, un delitto di diciott’anni fa: un pomeriggio, nella sede dell’’Associazione alberghi della gioventù”, venne trovato il cadavere della segretaria Simonetta Cesaroni, di 21 anni, trafitta da 29 colpi di tagliacarte e con un ben visibile morso sul collo. Benché in diciott’anni l’arcata dentaria si possa modificare, i periti di adesso sostengono che quel morso venne dato dal fidanzato di allora, Raniero Busco, 44 anni, oggi meccanico all’aeroporto di Fiumicino, sposato e padre di due figlie. Ci sono anche tracce di dna riconducibili, ma non con sicurezza assoluta, a Busco. Il quale si era sottoposto volontariamente agli esami. La decisione sul rinvio a giudizio verrà presa in una quindicina di giorni.
Posillipo A Posillipo, un cameriere romeno ha guidato due compaesani al colpo della vita nella villa a picco sul mare del suo datore di lavoro, l’ex re del grano Francesco Ambrosio, 77 anni. I tre – tutti sui vent’anni – si sono prima abbuffati di wurstel e cioccolata nella dependance, poi hanno spaccato con una spranga la porta-finestra della villa trovandosi davanti il padrone di casa in pigiama, che era stato svegliato dal fracasso. Lo hanno steso con una bastonata in testa e hanno colpito allo stesso modo la moglie, Giovanna Sacco, 74 anni, che s’era appisolata vestita davanti alla tv ed era stata svegliata anche lei dal rumore. Lui era stato considerato il re del grano, per un’azienda da 2.500 miliardi di lire finita male per via di Tangentopoli. Lei aveva molta simpatia per il suo cameriere-assassino – di nome Marius Vasile Acsinei – di cui aveva sempre lodato «lo sguardo così buono».