Varie, 28 aprile 2009
MARCHIONNE PER VOCE ARANCIO
«His car engine room», il suo vano motore, è uno degli anagrammi che si possono fare in inglese col nome e cognome di Sergio Marchionne, amministratore delegato e presidente della Fiat indicato nientepopodimenoché dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama come l’unico manager in grado di salvare dal fallimento la Chrysler, terzo gruppo automobilistico americano (il più piccolo dei ”Big Three”).
Nato a Chieti il 17 giugno 1952, Marchionne è indicato dalla stampa di tutto il mondo come italo-canadese. Figlio del maresciallo dei carabinieri Concezio e di Maria Zuccon, nel 1966 il tredicenne Sergio traslocò infatti con la famiglia a Toronto. Sui motivi che convinsero i Marchionne a traslocare oltreoceano è piuttosto vago: « una lunga vicenda, mia madre è dalmata, la parte della famiglia che mi è rimasta era andata in Canada tanti anni fa. una storia molto personale che non vorrei toccare», disse in un’intervista alla Gazzetta dello Sport. Il padre all’epoca era già in pensione: «Io cominciai a lavorare a 15 anni, facendo il garzone, nei week-end, in un enorme supermercato di Toronto: un’attività quasi istituzionale nel mondo anglosassone, era il 1967». Preso dalla nostalgia per l’Italia, all’epoca voleva andare alla Nunziatella e diventare un ufficiale dei carabinieri: «Poi la storia ha preso un’altra piega».
Laurea in filosofia a Toronto, Marchionne è dottore commercialista (Institute of Chartered Accountants in Canada) dal 1985 e procuratore legale e avvocato (nella regione dell’Ontario) dal 1987. Nel biennio 1983-1985 lavorò come esperto nell’area fiscale per la Deloitte & Touche; nei tre anni successivi fu controller di gruppo e poi director dello sviluppo aziendale presso il Lawson Mardon Group di Toronto per diventare subito dopo vicepresidente esecutivo della Glenex Industries e tra il 1990 e il 1992 vicepresidente per la finanza e chief financial officer alla Ackland Limited. A seguire ricoprì a Toronto la carica di vicepresidente per lo sviluppo legale e aziendale, di chief financial officer e di segretario al Lawson Group, acquisito nel 1994 da Alusuisse Lonza, gruppo dell’alluminio di Zurigo.
In Svizzera dal 1994, Marchionne fu protagonista del programma di risanamento di Alusuisse tanto da guadagnarsi per le dismissioni effettuate e i tagli occupazionali il soprannome di ”becchino dell’industria svizzera”, affibbiatogli dal quotidiano ”Tagesanzeiger”. Gli azionisti, però, apprezzarono e nel 2000 lo misero alla guida del Lonza Group, divisione ormai autonoma di Alusuisse nella chimica e nella biofarmaceutica. Nel 2002 passò alla guida della ginevrina Sgs (Societé Generale de Sourveillance), azienda leader mondiale nei servizi di ispezione, verifica e certificazione che aveva fra gli azionisti di controllo la famiglia Agnelli. Nel 2004, all’uscita di Giuseppe Morchio, arrivò la chiamata in Fiat.
Già nel 2003, per qualche giorno, nei turbolenti mesi che precedettero l’arrivo di Morchio al Lingotto, il nome di Marchionne era circolato negli ambienti internazionali e in maniera più soft in Italia come possibile candidato alla poltrona di amministratore delegato della Fiat. A conferma di quanto di buono aveva fatto in Sgs, queste indiscrezioni erano state sufficienti a far sì che il titolo della società svizzera subisse in Borsa una severa batosta. L’arrivo in Italia fu però rimandato al maggio del 2004, quando, dopo la morte di Umberto Agnelli, la Fiat dovette darsi un nuovo vertice: Luca Cordero di Montezemolo assunse la presidenza della società, Marchionne la carica di amministratore delegato. I primi giorni a Torino furono, per sua stessa ammissione, scioccanti: «Sentivo puzza di morte. Morte industriale, intendo. Un’organizzazione sfinita, pronta ad appigliarsi a qualsiasi chiodo, anche a questa specie di Topolino che arrivava dalla Svizzera, chissà che fumetti avrebbe portato».
La sua nomina lasciò tutti un po’ perplessi: erano circolati nomi ben più importanti e conosciuti. La battuta più diffusa in quei giorni era: Marchionne chi? A Torino il neo ad si segnalò subito per uno stile diverso: stava chiuso in ufficio, non lanciava proclami attraverso i giornali, non andava ai convegni. «Per prima cosa ho fatto il giro del mondo in 40 giorni, ho visitato tutti gli stabilimenti, visto tutto. La burocrazia ministeriale. L’organizzazione non strutturata per la concorrenza. La logica era: quest’anno ho fatto un accendino, il prossimo anno ne farò uno più lungo di un millimetro, e chi se ne frega se intanto all’estero lo fanno di un chilometro. L’idea di fare soldi non era minimamente presa in considerazione, come in certi ambienti islamici dove il guadagno è considerato una forma di usura».
A quei tempi la Fiat era impegnata nella trattativa con General Motors intorno al famoso accordo in base al quale gli americani, pagando una certa somma, avrebbero potuto prendersi tutta l’auto del gruppo di Torino. Il Lingotto puntava a farli uscire, ma facendosi pagare due miliardi di dollari. Pochi pensavano che Marchionne avrebbe raggiunto il suo scopo, ma l’operazione riuscì. «Quando andavo in Usa per trattare con GM mi sentivo alle Crociate», ha raccontato. E poi: «Ho capito che Gm non era pronta a gestire la Fiat. Non voleva contaminazioni che l’avrebbero fatta morire. Quella dei preliminari è stata la fase più complicata, una partita a poker, una lunga e logorante battaglia di posizione, tra advisor, avvocati, analisti. Loro indagavano su di me e io su di loro. Sapevamo gli uni dell’altro persino che cosa mangiavamo a pranzo e cena». L’accordo fu firmato il 13 febbraio del 2005, la vigilia di San Valentino, a New York, Park Avenue: «Ogni dettaglio di quel giorno sta ancora nella mia testa. Noi eravamo in cinque, loro un esercito».
Dopo gli americani, siamo a settembre 2005, Marchionne se la dovette vedere con le banche italiane, che in virtù del prestito di tre milioni di euro erano diventate le vere padrone della Fiat: «Non è stato facile dire alle banche che non avremmo restituito i soldi e che avrebbero dovuto prendere le azioni Fiat, ma nell’occasione l’intervento della famiglia Agnelli è stato determinante. Lo sforzo fatto per mantenere la maggioranza del trenta per cento, attraverso l’equity swap, ha rappresentato un grande segno di fiducia nei confronti del management del gruppo. Io avevo presentato un piano fino al 2007 nel quale credevo fortemente. Alcune banche mi hanno seguito, altre no».
In questi anni Marchionne ha messo in pratica una ricetta semplice: rimettere tutta l’azienda a fare auto e ridurre com ogni mezzo il massiccio indebitamento. Tutto quello che non aveva a che fare con l’auto è stato messo fuori, ceduto, venduto. Dentro il settore auto si è ripreso a lavorare con una motivazione forte, con la decisione di lanciare sul mercato molti nuovi modelli (memorabile, nel luglio 2007, quello della nuova 500) e tutti con un robusto sostegno di marketing. Nel maggio 2007 ”Fortune” gli dedicò la copertina col titolo «Il salvataggio della Fiat. Come un artista della svolta ha ristrutturato un’azienda automobilistica in rovina»: «Sono state le sue qualità di outsider che l’hanno aiutato di più. Ha cambiato il management, accelerato il processo di design, aumentato la produzione, migliorato le relazioni con i sindacati e ha cominciato a rilanciare marchi severamente danneggiati», si leggeva sul settimanale economico statunitense.
La ristrutturazione e il rilancio della Fiat sono stati esemplari per rapidità ed efficacia: dal 2005, il titolo è arrivato a guadagnare l’86% più dell’indice europeo di settore. Mentre tutto il mondo ne celebrava le gesta, Marchionne ha ammesso di aver commesso qualche errore: «Avevo sottovalutato alcune cose per mia ignoranza. Pensavo che la situazione complessiva dell’azienda Fiat fosse meno peggio di quella che era. Non avevo tenuto in conto la collocazione della Fiat nel sistema finanziario e politico di un paese dove tutti parlavano della sua crisi e scommettevano che non ce l’avrebbe fatta. Fino a quando non ci siamo sganciati dalla Gm non c’è stato un articolo o un commento positivo e incoraggiante. Avevo anche sottovalutato la capacità dei nostri dirigenti».
Negli ultimi tempi il guadagno è svanito: la recessione ha riportato in evidenza le antiche debolezze del gruppo, che la ristrutturazione non ha risolto: a fine 2008 i debiti netti a fronte di crediti concessi (anche a tasso zero) ammontavano a 16 miliardi di euro, senza contare quelli delle società collegate. Il primo trimestre del 2009 ha chiuso in rosso: i ricavi sono scesi del 25% rispetto al primo trimestre dello scorso anno. Marchionne ha preso intanto a fare dichiarazioni sull’inevitabilità di fondersi per chi, come Fiat, produce meno di 5 milioni di auto l’anno: subito è scattata la caccia al partner.
Il 19 gennaio è stata firmata una «lettera d’intenti non vincolante» per un’alleanza strategica globale con la Chrysler. Il 30 marzo Obama ha annunciato che il gruppo americano avrebbe beneficiato degli aiuti di Stato (6 miliardi di dollari) solo completando l’alleanza con la Fiat, all’avanguardia nella produzione di vetture piccole con motori poco inquinanti, quelle su cui la Casa Bianca vorrebbe fondare il rilancio dell’industria automobilistica nazionale. In attesa di notizie dalla Chrysler (scadenza dell’ultimatum presidenziale il 30 aprile), Marchionne ha cominciato a preparare l’attacco alla Opel (i tedeschi di Der Spiegel sono stati i primi a parlare delle trattative per acquistarne una quota di maggioranza) e a un pezzo consistente della General Motors (sulla strada del fallimento pilotato). Obiettivo: creare un gruppo italo-tedesco-americano da 7,2 milioni di vetture all’anno.
In attesa di vedere come sarebbe andata a finire a Detroit, il settimanale economico inglese The Economist ha dedicato a Marchionne un articolo in cui l’ha definito «un pokerista» che ama «essere cacciatore e non preda». Tale è ormai il suo mito, che il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha pensato bene di far sapere che l’ha sempre battuto nei loro derby a scopone. Molti si interrogano sulle sue prossime mosse. Nel 2010 scadrà il suo secondo piano industriale, cosa succederà dopo dipende dall’esito delle battaglie ingaggiate in queste settimane in tutto il mondo. Quanto al giorno in cui lascerà la Fiat, ha già messo in chiaro quel che non farà: «Io in politica? Mai, mai. E mai anche a mettermi in proprio. Io faccio il manager».