Massimo Mucchetti, Corriere della sera 28/4/2009, 28 aprile 2009
«COMBATTERE LE DISUGUAGLIANZE? UN INVESTIMENTO»
Quanto costa eliminare la povertà? Andrea Brandolini, studioso della Banca d’Italia, ha stimato che per portare 7,5 milioni di individui sopra la soglia della povertà relativa ci vorrebbero 6,2 miliardi di euro. Un altro economista, Massimo Baldini, dell’Università di Modena, azzarda che, per portare i 2,4 milioni sopra la soglia della povertà assoluta, ci vorrebbero 3 miliardi l’anno. Cifre troppo alte? In assoluto no. In relazione al bilancio pubblico bisogna andare a fondo. La leva fiscale, per esempio, non è semplice da usare: se si aumentasse dell’1% su tutto il reddito il prelievo fiscale per i contribuenti sopra i 70 mila euro di imponibile, lo Stato ricaverebbe solo un miliardo in più. Se si elevasse il prelievo al 3% per chi vanta oltre 200 mila euro, arriverebbe a 1,5 miliardi. Insomma, non basterebbe chiedere una maggior solidarietà obbligatoria. Si dovrebbe anche e soprattutto manovrare nella spesa pubblica modificandone un po’ le destinazioni e rendere finalmente chirurgici e non a pioggia gli interventi.
Contrastare la povertà, ridurre le disuguaglianze è una battaglia morale. Ma può essere un investimento? Per Luigi Campiglio sì. Dice l’economista del cardinal Tettamanzi: «In Svezia, dove la pressione fiscale e la spesa pubblica sono superiori rispettivamente di 5,3 e di 7,5 punti rispetto all’Italia, la produttività ha avuto un incremento maggiore non soltanto al nostro, che è pressoché nullo, ma anche a quello degli Usa, dove pressione fiscale e spesa pubblica sono poco più della metà». La Svezia è un paese piccolo. E Campiglio non lo nega. Ma la Francia, che è perfettamente paragonabile all’Italia? «La Francia mostra, sia pure con valori più contenuti, la stessa tendenza della Svezia e proprio in questi giorni torna a consumare di più, beni durevoli compresi. La paura è uguale dappertutto, ma è la rete di assicurazione per i più deboli che la combatte, non le parole. Ed è per questo che saranno i paesi con maggior coesione sociale a uscire meglio dalla crisi».
La nuova impostazione dell’Istat può consentire allo Stato di non sprecare risorse scarsissime. Per contrastare la stessa povertà al Nord ci vogliono maggiori risorse che al Sud. E questo apre una sfida nella distribuzione delle risorse pubbliche in un quadro istituzionale federalista, ma può anche giustificare il ritorno verso le gabbie salariali per chi è appena sopra le soglie della moderna miseria. In tal caso, si riproporrebbe l’antico dilemma: il salario remunera una prestazione o dà da vivere?
Dalla trincea milanese del fare, Campiglio osserva: «Le gabbie salariali, in realtà, persistono nei differenziali nell’edilizia, in agricoltura o nei piccoli servizi rispetto al Nord e nella scarsa diffusione della contrattazione integrativa. Non sarebbe meglio migliorare chi sta peggio anziché tirare al ribasso?». Un’esortazione meno buonista di quel che sembra se il primo datore di lavoro al Sud è lo Stato, spesso più generoso che al Nord. Sarà la Regione Sicilia a tagliare le retribuzioni in nome della nuova flessibilità?