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 2009  aprile 28 Martedì calendario

I PIRATI DEL GOLFO DI ADEN E LA CRISI DELLA SOMALIA


Ogni volta che leggo notizie su attacchi di pirati nel Golfo di Aden o altrove, le trovo sempre accompagnate da varie opinioni sulle possibili contromisure adottate o adottabili, che hanno tuttavia una sostanziale linea comune: non fare troppo male! Si passa dall’intimidazione degli elicotteri a bassa quota ai getti degli idranti, dagli spari – rigorosamente fuori bersaglio, per carità, in acqua – agli altoparlanti-dissuasori...
Insomma, possibile che essendo loro degli assassini in acque internazionali, equipaggiati con mitragliatrici su barchini, e noi con navi da guerra ed elicotteri, missili e cannoni, non si possa semplicemente sparare su di loro? Perché?
Camillo Gregotti
gregott@libero.it

Caro Gregotti,
Non sono sicuro di po­ter dare una risposta soddisfacente a tutte le sue domande. Ma cercherò di fornirle qualche dato. Gli atti di pirateria, dal 1984 a og­gi, sono stati 440, ma il feno­meno è stato bruscamente ac­celerato dalla crisi dello Stato somalo e ha subito una forte impennata nel 2008. Secondo un articolo di Valerio Miran­da che lei potrà leggere nel si­to internet della rivista del­­l’Istituto Affari Internazionali (www.affariinternazionli.it), fra i 293 attacchi registrati l’anno scorso, 111 hanno avu­to luogo al largo della Soma­lia con un aumento del 200% rispetto all’anno precedente. Le navi nelle mani dei pirati sarebbero 15 e i membri de­gli equipaggi non meno di 260. Esiste quindi una stretta relazione fra il collasso dello Stato somalo all’inizio degli anni Novanta e l’esplosione di un fenomeno che ha lunga­mente fatto parte, anche se in misura più contenuta, delle tradizioni di questi mari. I pi­rati possono contare su porti e approdi dove la legge dello Stato non viene imposta e sul­la complicità di popolazioni che vivono anch’esse, indiret­tamente, di queste scorriban­de.
In altre parole esiste or­mai, grazie all’assenza dello Stato, una economia della cor­sa a cui sono direttamente in­teressate parecchie migliaia di persone.
Gli armatori sono costretti a scegliere fra due ipotesi al­trettanto costose: circumnavi­gare l’Africa o contrarre poliz­ze d’assicurazione particolar­mente onerose. Potrebbero armare il loro equipaggio o imbarcare qualche «mercena­rio » delle compagnie militari private che sono cresciute co­me funghi negli ultimi vent’anni e sono state larga­mente utilizzate in alcuni Pae­si africani e in Iraq. Ma gli ar­matori, con qualche eccezio­ne (il caso della nave da cro­ciera italiana Melody), preferi­scono evitare il ricorso alle ar­mi e pagare il riscatto piutto­sto che esporre i loro marinai al rischio di uno scontro a fuoco. La lotta alla pirateria, quindi, spetta alla comunità internazionale e ai Paesi (14) che si sono consorziati sotto diversi cappelli istituzionali per mandare le loro navi da guerra nella regione. Due re­centi risoluzioni dell’Onu hanno consentito tra l’altro l’ingresso delle navi nelle ac­que territoriali somale, ma non vi è ancora un accordo in­ternazionale sui poteri delle flotte, sull’ampiezza dei loro interventi, sul loro coordina­mento, sul loro diritto di sca­valcare gli Stati della regione quando non prestino la neces­saria collaborazione. Come ac­cade spesso in queste circo­stanze, alcuni Paesi (in parti­colare la Cina) sono preoccu­pati dal timore di creare pre­cedenti che potrebbero esse­re utilizzati, in altre circostan­ze, a loro danno.
Non esistono, a tutt’oggi, regole comuni di comporta­mento e d’intervento. Qual­che settimana fa i francesi si sono impadroniti di 12 pirati e li hanno trasportati a Parigi dove verranno processati. Po­chi giorni dopo una nave ca­nadese della Nato è riuscita a sventare un attacco contro una petroliera norvegese e ha catturato 7 pirati. Ma li ha rila­sciati, dopo averli interrogati e disarmati, perché l’attacco non ha avuto luogo sul terri­torio del Canada e non ha coinvolto cittadini o interessi canadesi. Aggiunga, caro Gre­gotti, che anche questa, come quella irachena e afgana, è una guerra asimmetrica e che le grosse navi delle marine militari sono poco adatte a manovrare contro rapidi bar­chini. Certo i cannoni delle navi e le mitragliatrici degli elicotteri potrebbero liquida­re i pirati senza grandi diffi­coltà; e vi sono circostanze in cui il ricorso alle armi sarà probabilmente necessario. Ma conviene ricordare che i pirati sono banditi e ladri, non assassini: una distinzio­ne che il diritto penale inter­nazionale non può ignorare. La vera soluzione del proble­ma passa dalla fine della crisi somala. Non possiamo limi­tarci a combattere i pirati sul mare. Dobbiamo aiutare la So­malia a divenire nuovamente uno Stato.