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 2009  aprile 30 Giovedì calendario

L’ORO BIANCO DI LA PAZ



L’ oro bianco del XXI secolo si chiama litio, e la Bolivia già viene chiamata ’l’Arabia Saudita’ del Sud America. La capitale La Paz non è mai stata così brulicante di giapponesi e cinesi. Tutto il mondo economico, e specialmente quello asiatico, punta gli occhi sul Paese più indigeno delle Americhe. Nelle mani del presidente Evo Morales e del suo governo stanno le redini dell’affare che definirà le sorti future di molte aziende automobilistiche. Il governo di Bolivia detiene, per la nuova Costituzione, il 60 per cento di tutte le aziende nazionali, dagli idrocarburi alle miniere, e da pochi mesi si ritrova con un tesoro da dover gestire in partnership con altre imprese internazionali come ad esempio le giapponesi Mitsubishi e Toyota.

Nel cuore commerciale della capitale c’è un imponente palazzo bianco, affollato di persone in giacca e cravatta. Qui sta la sede del ministero delle Risorse minerarie, i cui uffici da inizio anno sono visitati dai giornalisti stranieri, ancor più che la sede del governo. Il ministro Luis Alberto Echazú Alvarado, spiega che "il progetto del litio è, ad oggi, la svolta per la crescita economica integrale della Bolivia. Dagli studi fatti si può considerare realistico ricavare entro il 2014, circa 30 mila tonnellate all’anno di carbonato di litio, e l’equivalente in cloruro, solfato di potassio e acido borico, prodotti base per la produzione delle batterie. Per la regione in cui si trova, soprattutto, può dare un grande contributo allo sviluppo".

Il presidente Morales, dal canto suo, ha dichiarato che già si prefigura l’immagine della fabbrica di automobili, funzionanti completamente a batterie elettriche, ’Echo en Bolivia’, fatto in Bolivia, industria totalmente nazionale. Ha aggiunto che la Gazprom, il colosso russo del gas, si mostra interessata a stringere accordi per una possibile joint venture nell’ambito della industrializzazione del litio, oltre a quelli già esistenti relativi al gas boliviano. Ma il ministro Echazù frena un poco gli entusiasmi: "La strada è ancora lunga. Siamo solo alle fasi preliminari, stiamo sperimentando i primi risultati di estrazione di una piccola installazione formata da due piscine, da cui si fa evaporare l’acqua e da cui poi si ricava il carbonato di litio". L’industria di automobili boliviane è, a suo parere, ancora troppo futuristica.

Certo è che le case automobilistiche vedono nel litio il colore verde dei dollari. I loro rappresentanti che hanno preso residenza a La Paz, come Eichi Maeyana della Mitsubishi, sostengono che "ci sarà bisogno, minimo, di 500 mila tonnellate di litio all’anno". Attualmente il costo sul mercato si aggira attorno ai 12 mila dollari a tonnellata, e il prezzo lo fanno i cileni della Smq nel Salar di Atacama, che detiene un terzo della produzione del litio nel mondo. Inoltre la crescita dell’industria dell’elettronica fa concorrenza spietata nell’utilizzo di questa materia prima ed è verosimile che nel 2015 saranno disponibili solo 300 mila tonnellate di litio per l’industria dell’auto.

Di fronte al palazzo del ministero si trova la Comibol, storica cooperativa dei minatori, incaricata del ’vaporticos’, il progetto pilota delle piscine di vaporizzazione. Il responsabile, l’ingegnere Saul Villegas, spiega: "Dovremo investire quasi 5 miliardi di dollari". Entro i prossimi tre anni la Comibol svilupperà la costruzione di un impianto capace di processare 1.200 tonnellate all’anno. Il governo spera", conclude Villegas, "di poter cominciare a esportare in grande scala entro 10 anni".

La Bolivia, fino a ieri uno dei paesi più poveri del Sudamerica, vive un sogno: come Cenerentola, si è trasformata nella detentrice di un tesoro immenso. Nel sud-ovest del suo altopiano arido e freddo esiste una meraviglia naturale finora considerata solo per la sua bellezza inestimabile: il Salar de Uyuni, il deserto di sale più alto del mondo. Questa distesa senza orizzonte, bianca e accecante conserva nelle sue profondità saline un terzo delle riserve mondiali di litio. Meta obbligatoria per gli escursionisti stranieri, che creano un indotto economico notevole per la regione, è invece ’l’inferno di sale’ per gli indigeni aymara che ci vivono. Qui si ’coltiva’ sale, si mangia sale, si respira sale, tutto il giorno, tutti i giorni, sin da piccoli. L’unica possibilità per le famiglie locali, povere e numerose, è lavorare nell’industria salina della raccolta e del commercio. Oltre al turismo, a un cimitero di treni, ai lama, alle pecore e alla quinua (cereale di altura antichissimo e ricco di proteine), non c’è altro. Per sei mesi l’anno piove a dirotto e la distesa di sale si trasforma in un luogo surreale. Il Salar circa 40 mila anni fa era parte di un enorme lago preistorico che, a 3.650 metri si è poco a poco prosciugato, lasciando spazio a questo paesaggio immacolato, abitato da eleganti fenicotteri rosa e giganteschi cactus alti due metri. Largo 12 mila chilometri, è la più grande distesa salata del mondo, e si stima che contenga 10 miliardi di tonnellate di sale di cui meno di 25 mila tonnellate vengono estratte annualmente. Oltre al litio sono presenti importanti quantità di potassio, boro e magnesio.

 qui che hanno installato le piscine di vaporizzazione, primo passo per lo sfruttamento dell’oro bianco. L’ingegnere della Comibol Marcelo Castro, persona tozza e tutta d’un pezzo, presidia le piscine con indosso il suo inseparabile casco giallo e gli occhiali scuri, sotto un inclemente sole dalla luce bianca.

Al momento nella zona dei vaporticos c’è poco più che una bandiera boliviana, un campo da calcio per gli operai, e un paio di piscine appunto. Sono presenti cento lavoratori impegnati nel ’progetto pilota’. Dice l’ingegnere Castro che il litio è "la luce della Bolivia", ma molto di quanto lui sa e immagina è solo sulla carta e lento a materializzarsi nei fatti.

Questa zona tra Potosì e Oruro è la più povera e isolata della Bolivia. Di fatto qui la luce, quella elettrica, è ben lungi dall’arrivare, come i servizi di prima necessità. Molti dei paesini che si incontrano sulle vie del Salar, come Rio Grande dove è installato il progetto pilota, sono cresciuti intorno al benessere che portava l’antica ferrovia Bolivia-Cile, ma sono quasi del tutto disabitati. Girovagando per questi posti, le poche persone che ancora vi abitano si affacciano all’uscio delle case incuriosite da presenze straniere. La parola ’litio’ suona per loro distante ed estranea. Lo hanno sentito nominare spesso negli ultimi mesi, ma non saprebbero dire esattamente di che si tratti, a cosa serva e se sia commestibile. Sanno solo che, da qualche tempo, si è alzato un gran polverone attorno a questa parola e si è creato un via vai di gente in elmetto giallo e stivali di gomma, che arrivano su jeep e elicotteri, e molto spesso parlano lingue sconosciute.

Comprendono che è qualcosa che non si vede, ma che è importante per il Paese, o almeno così hanno loro spiegato. Sperano solo che porti del buono anche per la loro piccola comunità, rendendo la vita un po’ meno dura. Sperano che almeno sia una porta aperta sul futuro dei loro bambini, che vanno a scuola solo pochi giorni al mese, quando arriva il maestro da lontano, e che già da piccoli soffrono di cataratta a causa del vento, del sole e del sale. Sperano che, se proprio le auto elettriche non arriveranno a guidarle, che almeno il prezioso ’cibo’ che consumano dia loro cibo da mangiare.

Diletta Varlese