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 2009  aprile 27 Lunedì calendario

MAFAI, MONTALDO, LIZZANI RACCONTANO LA VERA STORIA DEL «TEATRO DI MASSA»


Lo spettacolo era praticamente la storia d’Italia attraverso le canzoni popolari. Il «menestrello» che eseguiva le canzoni, tra un numero e l’altro, era Domenico Modugno. La sera,dopogli spettacoli, si sedeva al ristorante con noi e c’era anche un suo amico, Franco Migliacci. Assieme stavano buttando giù una canzoncina, Migliacci scriveva le parole: «mi dipingevo le mani e la faccia di blu... Poco tempo dopo andarono a Sanremo con Volare e successe quel che sappiamo». Giulia Mafai (sorella di Miriam, scenografa e costumista di cinema e teatro, vivacissima come la parente giornalista) è seduta davanti a noi nel suo «ufficio», il bar di Ponte Milvio dove organizza le sue giornate. Le abbiamo chiesto di rievocare una stagione dimenticata e irripetibile, quella del «teatro di massa» che fu in voga, in alcune regioni del Nord Italia, tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50. Volare vinse Sanremo nel 1958: la testimonianza di Giulia ci dice che qualche mese prima il «teatro di massa» esisteva ancora, ma l’esperienza stava finendo. Era arrivata la tv, era iniziata da tempo la grande stagione dei teatri stabili. «Come ti è venuto in mente di rivangare questa storia?», ci chiede Giulia. Anche questa è una strana storia. Qualche tempo fa vediamo un piccolo documentario di Vincenzo Fattorusso, giovane film-maker italiano, intitolato «A parte». un omaggio a Luciano Leonesi, un bolognese che nel 1950 partecipòa uno di quei clamorosi spettacoli che ricostruivano «quadri» della storia d’Italia portando sul palcoscenico le mondine, gli operai, i partigiani – ce n’erano ancora tanti, vivi e vegeti, giovani e incazzati. Lo spettacolo si intitolava «Sulla via della libertà» e andò in scena a Bologna il 28 febbraio del 1950. Nel film, Leonesi racconta:«A un certo punto arrivarono i partigiani che avevano fatto la battaglia di Porta Lame, quelli della Settima Gap. Quelli VERI, che avrebbero partecipato allo spettacolo. Io rimasi deluso, ma era la delusione dell’imbecille: uno si immagina gli eroi con i baffetti di Clark Gable e il fisico di Gary Cooper, invece quelli erano operai autentici, gente comune...maerano anche eroi». Si cita Gastone Bondi, «l’uomo che inventò i festival dell’Unità, aveva due manone che sembravano due taglieri»; si cita Enrico Bonazzi, segretario della Federazione bolognese del Pci; si cita Giancarlo Pajetta, che la sera prima del debutto scrive sull’Unità che «lo spettacolo di Bologna è una testimonianza di maturità politica », dando la carica a tutti quanti, e il giorno dopo alla «prima» c’è anche Togliatti! E si cita Marcello Sartarelli, il regista, del quale Leonesi era l’aiuto. Quel nome fa scattare un «clic» dentro la nostra memoria. Sartarelli... già sentito, ma dove? Telefonata. A Giuliano Montaldo, il regista di Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire. «Sartarelli? merito suo se sono un cineasta. Alla fine degli anni 40 venne a Genova per allestire uno di quei suoi spettacoli enormi nei quali c’era quasi più gente sul palco che in platea. Io avevo 18-19 anni, recitavo nel teatro amatoriale, fui scelto per il ruolo del corifeo: dovevo, diciamo così, chiamare in scena le mondine, i braccianti, i camalli del porto, i contadini delle valli liguri... e a un mio ordine queste masse sciamavano sul palco. Alla prima c’era un giovane regista di cinema venuto da Roma... ». Quel giovane regista era Carlo Lizzani, lasciamo che sia lui a proseguire il racconto: «Ero a Genova per preparare il mio film d’esordio, Achtung! Banditi! I protagonisti erano Andrea Checchi e Gina Lollobrigida, ma mi servivano attori genovesi per le altre parti. Andai a vedere quello spettacolo di Sartarelli e quel ragazzo alto, che dirigeva il traffico sul palco, mi piacque. Lo presi per il ruolo del comandante partigiano Lorenzo, e capii ben presto che aveva il talento per stare dietro la macchina da presa, non solo davanti. Fece altri film con me, come attore (Cronache di poveri amanti) e come aiuto, poi spiccò il volo. In quanto a Sartarelli, erauntrascinatore, un capopopolo. Quegli spettacoli avevano una funzione di propaganda, oltre che di ricerca artistica. Erano voluti e finanziati dal Pci e risalivano aunatradizione antica, ma erano molto popolari, vivevano su una partecipazione dal basso forte e sentita. Sì, era un’altra Italia. In tutti i sensi». Già,latradizione.Potremmorisalire addirittura alla tragedia greca, al teatro come parte integrante del dibattito politico nell’Atene di Eschilo e di Sofocle; ma quel che Sartarelli e i dirigenti del Pci ben conoscevano era il teatro di massa sovietico, dove si erano formati artisti come Eisenstein e Meyerchold, dove aveva lavorato anche Majakovskij. Pochi sanno che nei primi anni dell’Urss, fino al giro di vite staliniano degli anni 30, ogni anniversario della Rivoluzione d’Ottobre veniva festeggiato mettendo in scena la presa del Palazzo d’Inverno, utilizzandounnumerodi comparse assai superiore a quello dei bolscevichi che, nel 1917, avevano effettivamente sconfitto le guardie dello Zar... Nell’Italia del dopoguerra, il Pci all’opposizione (dopo il ”48) usò anche questi spettacoli per mescolare intrattenimento e propaganda,«panemet circenses» e pedagogia storica. Sartarelli ne era ilmassimo artefice. E parlando di lui, sia Montaldo che Lizzani ci fanno un nome: Giulia Mafai. «Parla con lei, era la sua compagna, nonché costumista e scenografa di tutti i suoi spettacoli». Ecco perché siamo qui, Giulia. Ride.E comincia a raccontare. «Ho cominciato a lavorare in teatro a Genova, negli anni del liceo: imbrachettavo stracci per la compagnia del dopolavoro delle Poste, dove recitavano futuri divi come Ferruccio De Ceresa, Elsa Albani, Alberto Lupo – e lì devo aver conosciuto anche Montaldo. Sartarelli venne a Genova per allestire, nel Carlo Felice appena bombardato, unospettacolo scritto da Gianni Rodari. Mi innamorai di lui: era più grande di me, era affascinante, gli anni ”50 al suo fianco furono una grande avventura. In tutta quella banda di sfegatati comunisti, io ero l’unica con qualche lira perché lavoravo già per il cinema, con Bragaglia, Mastrocinque; in più tenevo una rubrica sulla moda per Vie Nuove». Che uomo, e che regista, era Sartarelli? «Lasciamelo dire: era un uomo perbene, un comunista vero, una persona seria. Forse troppo seria... Veniva dal cinema, dov’era stato un bravo aiuto-regista, e si vedeva. Pochi sapevano guidare le masse come lui, e al cinema quello è sempre il lavoro dell’aiuto. Quando poi tentò di fare il teatro da camera, con gli attori veri, non funzionò. Ma quegli spettacoli di massa erano emozionanti, soprattutto quelli con le mondine realizzati in Emilia». Il Pci interveniva molto? «Il Pci era il finanziatore, attraverso le federazioni. Senza il Pci quel teatro non sarebbe esistito.Main quel periodo il problema non si poneva: il partito era il partito, l’identificazione era totale. Lavorare in quel modo era un gesto di militanza e un folle divertimento. Marcello, per un certo periodo, fu anche responsabile della radio del Pci che trasmetteva in italiano da Praga. Io facevo spesso la speaker. La voce che annunciò alle masse operaie italiane la morte di Stalin era la mia. E non fu facile evitare di scoppiare a piangere. Era il 1953, da allora il mondo è molto cambiato. In meglio e in peggio».