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 2009  aprile 27 Lunedì calendario

KOBE SECONDO SPIKE PAROLACCE IN ITALIANO CARISMA ALLA OBAMA


«Let’s have fun», divertiamoci. Pantaloni bianchi, giacca rossa e strisce gialle, cappello piccolo beige e occhiali neri, Spike Lee fa il suo ingresso al festival di Tribeca dal palco del teatro su Chambers Street e presenta «Kobe Doin’ Work», 83 minuti di pellicola per raccontare da vicino la stella del basket nazionale Kobe Bryant.
Per 60 minuti le 30 telecamere di Lee descrivono il match della Nba dell’aprile 2008 nel quale i Los Angeles Lakers battono i San Antonio Spurs grazie alle magie di Bryant che gli valsero il primo titolo di «Most Valuable Player» - miglior giocatore della Nba - ma il film va oltre la versione americana del documentario sportivo «Zidane, un ritratto del XXI secolo», che nel 2006 conquistò la Francia, perché punta ad azzerare nella memoria degli spettatori la memoria dello scandalo del 2003 che minacciò di travolgere il campione afroamericano.
Nell’estate di quell’anno la cameriera Katelyn Faber di un resort di lusso del Colorado accusò Bryant di averla stuprata e per provarlo testimoniò in tribunale descrivendo nei dettagli gli organi genitali del giocatore. Anche se l’incriminazione cadde dopo pochi mesi, perché la ragazza si vantò durante una serata con le amiche della prodezza sessuale compiuta, per gli americani l’immagine-shock fu Kobe in diretta tv che ammetteva l’adulterio vicino alla moglie Vanessa, tanto bella nell’aspetto quanto distrutta dal dolore subìto. Bryant rischiò prestigio, carriera e titoli. Il mondo gli stava crollando addosso. Si risollevò giocando a basket e ora Spike Lee rende omaggio alle sue qualità umane descrivendo, grazie ai finanziamenti della rete tv sportiva Espn, una sua giornata-tipo: l’abbraccio con le figlie Natalia e Gianna, al volante di un suv familiare con a fianco la moglie Vanessa, sul campo intento a giocare per gli altri come a dare consigli alla squadra, negli spogliatoi amico di tutti, capace di spronare come di essere vicino ai compagni che hanno bisogno di parlare o anche solo scherzare, imprecare assieme a qualcuno. E lo stesso vale per l’allenatore, Phil Jackson, che trova in Kobe Bryant un utile alter ego, con il quale riflette sulle strategie migliori per mettere a segno i punti decisivi. E’ la volontà di Spike Lee di mettere in risalto l’altruismo di Bryant, la sua identità di uomo-squadra - in famiglia come sul lavoro - che lo porta a dedicare appena pochi fotogrammi ai suoi tiri magistrali da tre punti, quasi che fossero solo una qualità marginale rispetto alle altre, ben più importanti, che possiede. Nelle riprese dei movimenti sul campo ciò che Spike Lee sottolinea di più è la freddezza del campione, la capacità in pochi attimi di decidere la cosa giusta da fare scartando le altre opzioni. E’ la stessa caratteristica che Craig Robinson, allenatore della Oregon State University e fratello della First Lady Michelle, riconobbe in Barack Obama quando, quasi venti anni fa, fecero amicizia allenandosi assieme sotto canestro. Robinson ritiene che l’essere «cool» - calmo, freddo - è una qualità che Barack Obama ha maturato grazie allo sport e Spike Lee la ritaglia allo stesso modo su Bryant facendo vedere come si muovono le gambe, e gli occhi, quando è pressato dagli avversari, subisce colpi duri ma riesce comunque a fare con la palla ciò che in quel momento più serve all’intera squadra. Senza mai essere scorretto con l’avversario di turno.
Gli ultimi dieci minuti del film riprendono Bryant in panchina. La partita sta finendo, la vittoria viene conquistata solo alla fine, e il campione seduto fra i compagni con il ginocchio fasciato nel ghiaccio si emoziona per le gesta degli altri con l’ingenuità di un bambino. E forse non a caso, proprio come quando era molto piccolo, parla a getto in perfetto italiano allo sloveno Sasha Vujacic - che giocò nella Snaidero Udine - cantando «tira la bomba, tira la bomba», dicendogli scherzando «tu sei più alto di me» e facendo seguire una serie di improperi nella lingua di Dante che ne svelano l’approfondita conoscenza maturata quando, a sei anni di età, viveva nel nostro Paese con il padre Joe, ex giocatore della Nba, impegnato nel campionato italiano. Quando il campanello suona segnando la fine del match, Spike Lee corre a riprendere Kobe Bryant che torna a vestire i panni di padre, con in braccio la piccola Gianna con un grande cartello colorato nel quale gli augura di vincere l’ambito trofeo «Mvp», come avverrà dopo qualche settimana. Quasi a dire che il risultato più importante sul campo Kobe lo ha ottenuto grazie al sostegno della sua famiglia, mai venuto meno.