Emanuele Novazio, La stampa 27/4/2009, 27 aprile 2009
L’ULTIMO TIRANNO D’EUROPA
Quando Gazprom gli comunicò che a partire da gennaio 2007 il prezzo del gas russo sarebbe passato da 46 a 105 dollari ogni mille metri cubi per un adeguamento agli standard europei Alexander Grigorievic Lukashenko denunciò la «provocazione assurda» di Mosca e minacciò di interrompere il flusso d’energia verso i mercati occidentali. Passati due giorni, Vladimir Putin gli fece capire che la follia eltsiniana dell’«Unione Russia-Bielorussia», della quale Lukashenko s’immaginava vicepresidente, era definitivamente tramontata, e che il Cremlino non avrebbe più tollerato capricci né prezzi politici sul gas.
«Bisogna scacciare la mosca dalla polpetta», disse l’allora presidente russo con efficace espressione gergale. Tanto bastò. L’uomo che Condoleezza Rice, nel 2005, aveva definito «l’ultimo dittatore d’Europa, un tiranno», comprese. E accettò l’aumento che cancellava fruttuose speculazioni, gas russo acquistato a prezzi calmierati e rivenduto in Occidente a prezzi di mercato.
Il rientrato scontro con Putin fu il segno della svolta che - dopo un bando di 14 anni dall’Europa - stamane porta Lukashenko a Roma e il 7 maggio consentirà al suo Paese di partecipare al vertice europeo di Praga, nonostante Minsk resti esclusa dal Consiglio d’Europa - l’organizzazione continentale per la difesa dei diritti umani - e sia rimasta l’unica nel continente a praticare la pena di morte (quattro condanne eseguite nel 2008, i corpi sepolti in luoghi nascosti perfino alle famiglie): non a caso l’invito della presidenza ceca non è «ad personam» ma - con una buona dose d’ipocrisia - alla Bielorussia, e quasi certamente a rappresentarla non sarà il presidente ma il ministro degli Esteri Serghey Martynov.
Abituato a violare sistematicamente i diritti umani e a imbavagliare la stampa («bisogna difendersi da questi sciacalli», disse dei media quando decise che le sole notizie occidentali ammesse sarebbero state quelle riguardanti scioperi, catastrofi naturali e terrorismo), Lukashenko comprese infatti che la «normalizzazione» delle relazioni con Mosca lo costringeva a sacrificare sull’altare del realismo le funebri evocazioni del nazismo che dal ”94 avevano fatto da cornice al suo regime: «L’ordine tedesco si è sviluppato nei secoli ma sotto Hitler, un politico di grandi qualità, ha raggiunto il culmine, ed è così che interpreto la Repubblica presidenziale e il ruolo del leader», disse dopo la conferma elettorale al vertice, nel 2001. Senza riguardo per la memoria di un popolo che proprio da Hitler era stato devastato.
La relativa e forzata emancipazione da Mosca ha insomma costretto Lukashenko - 54 anni ad agosto, economista di formazione, esperienza alla guida di un «sovkoz», le fattorie sovietiche di Stato - a socchiudere le porte blindate del suo Paese al «cane rabbioso occidentale». Ancora un anno fa impegnato in una crociata che prendeva di mira, fra l’altro, la musica straniera «corruttrice dei giovani» e autorizzava la radio a trasmettere due canzoni occidentali ogni dieci, il presidente rieletto per la terza volta nel 2006 con pratiche denunciate dagli osservatori dell’Osce ha compreso che, senza l’appoggio dell’Europa, la Bielorussia rischiava di ospitare la quarta «rivoluzione colorata» dopo Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005).
«Batkha» - il padre, come lo chiamano i sostenitori, forse nostalgici di Stalin - ha scelto dunque la strada delle concessioni. Timide e sporadiche ancora (le elezioni legislative dell’anno scorso sono state considerate «un progresso» dall’Osce), e accompagnate dal disprezzo per gli avversari politici, definiti «nemici del popolo». Ma sufficienti a convincere l’Europa - molto interessata alle equazioni geopolitiche con Mosca e a un Paese impegnato in vigorose privatizzazioni - che «qualcosa sta cambiando a Minsk».
Per prepararsi al salto, l’uomo che difende la sua immagine di capo con severe leggi anti-vilipendio (cinque anni di reclusione per chi fa dell’ironia su di lui) si è affidato a un’agenzia d’immagine britannica: niente più reliquie sovietiche ma abiti di taglio occidentale, niente più cipiglio ma tanti sorrisi, e perfino una foto allo stadio con Kolia, il figlio quindicenne frutto di una relazione extraconiugale con l’affascinante medico personale Irina Abelskaya.
L’Europa si aspetta dell’altro, da lui, e reclama passi in avanti più decisi nel dossier diritti umani. Ma è convinta che la strada giusta sia il dialogo, e per questo ha tolto il bando al suo visto d’ingresso per tutto l’anno in corso. Come nota un diplomatico italiano, «l’apertura è sotto condizione e sotto osservazione. Ma se non gli parli mai non farai mai progressi».