Note: [1] Sergio Romano, Corriere della Sera 25/4; [2] Guido Rampoldi, la Repubblica 25/4; [3] La Stampa 25/4; [4] Giordano Stabile, La Stampa 24/4; [5] Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 24/4; [6] Francesca Caferri, la Repubblica 25/4; [7] R.Es. Il Messaggero, 25 aprile 2009
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 27 APRILE 2009
Otto anni dopo l’invasione dell’Afghanistan i talebani sono tornati sulle terre perdute e stanno insidiando la stabilità del Pakistan, maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione. Sergio Romano: «La situazione afgana è pessima. Il presidente Karzai controlla tutt’al più la capitale e tollera, per restare al potere, un regime clientelare che arricchisce una piccola oligarchia e nuoce alla sua credibilità. La legge sul ”debito coniugale” (come veniva eufemisticamente chiamato il diritto d’imporre alla moglie il proprio piacere) è un regalo alla comunità sciita ed è soltanto un esempio dei compromessi a cui Karzai deve piegarsi per restare in sella. I talebani, intanto, controllano una buona parte del territorio, si finanziano con il commercio della droga e hanno costituito di fatto una sorta di Stato che comprende le province orientali dell’Afghanistan e quelle occidentali del Pakistan». [1]
Se in Afghanistan non va bene, in Pakistan va peggio. Guido Rampoldi: «In vari pensatoi da qualche tempo si discute se il Pakistan arriverà alla fine del 2009; o se invece collasserà prima, implodendo in un’anarchia generalizzata nella quale vagoleranno Taliban, milizie tribali e una dozzina di bombe atomiche pronte per l’uso». [2] Venerdì il capo degli Stati Maggiori statunitensi, ammiraglio Mike Mullen, si è detto «estremamente preoccupato» perché «ci stiamo certamente avvicinando al punto critico» in cui gli estremisti potrebbero impadronirsi del Paese. Brian Michael Jenkins, esperto di terrorismo: «Il pericolo è che se i radicali prendessero il potere in Pakistan, le forze armate si comporterebbero come quelle iraniane e direbbero semplicemente ”Questo è il nuovo governo e noi facciamo parte del nuovo governo”. Di conseguenza, l’arsenale nucleare potrebbe finire nelle mani di un governo più radicale». [3]
Il Pakistan, che prende il nome dalle iniziali dei principali gruppi etnici che lo popolano (Punjab, Afghania, Kashmir, Sindh, Beluchistan), sta perdendo la ”a” degli afghani (o più precisamente pashtun). [4] Un nuovo Stato, il ”Pashtunistan”, guidato dai talebani del Pakistan sta avanzando, giorno dopo giorno, quasi fino alle porte di Islamabad. Alberto Negri: «I pashtun sono la più grande comunità tribale del mondo, l’etnia che domina i 1.400 chilometri del confine tracciato dal colonnello britannico Durand alla fine dell’Ottocento. Questa frontiera, mai riconosciuta da Kabul, sulle mappe internazionali è ufficiale ma forse sarebbe più giusto definirla una linea immaginaria perché separa tribù e clan affini, saldati da legami di parentela e da una storia comune. ”Sono pashtun da 4mila anni, musulmano da 1.400 e pakistano da 50”, diceva Wali Khan, che ereditò dal padre Ghafar Khan la bandiera del nazionalismo locale. Dopo l’11 settembre, gli Usa entrarono in guerra contro l’Afghanistan del Mullah Omar ma anche con il ”Pashtunistan”, che vede ancora nei talebani i protettori della loro etnia». [5]
In marzo le sgangherate milizie di tale Fazlallah, più noto come ”Mullah radio” per le sue concioni radiofoniche, si sono prese lo Swat, una regione a ridosso della frontiera afgana, dove hanno sostituito lo stato di diritto con la giustizia delle corti islamiche. Rampoldi: «In cambio di una vaga promessa di non belligeranza, il governo centrale ha ratificato questo atto di aperta sovversione. Galvanizzati, all’inizio di questa settimana quei Taliban sono calati nella valle di Buner, un centinaio di chilometri della capitale, e ammazzati alcuni poliziotti, hanno ordinato alle donne di chiudersi in casa, alle scuole di serrare i portoni. Soltanto un nuovo negoziato con Islamabad, e presumibilmente nuove concessioni, venerdì hanno indotto quei guerrieri a tornare nelle loro montagne». [2] Molti temono che lo scontro sia solo rimandato. «Possono tornare quando vogliono. Chi ha i soldi scappa all’estero. O almeno manda via le figlie femmine», ha spiegato un abitante di Islamabad raggiunto al telefono. [6] Giovedì l’emittente Geo Tv, citando fonti dell’intelligence, informava che cinquemila ragazzi di età compresa tra i 10 e i 17 anni sarebbero stati addestrati dai talebani a farsi esplodere in attentati suicidi. [7]
La Swat è diventata l’ennesimo santuario degli estremisti pakistani, dove si trovano a loro agio radicali e guerriglieri e da dove, mancando ormai il controllo statale, diventa più facile organizzare nuove sortite in una sorta di strategia di presa delle città muovendo dalle campagne. Emanuele Giordana: «Una strategia mediata dalle guerre di liberazione marxiste e che anche i talebani afgani vorrebbero mettere in pratica. Ma le condizioni sono assai diverse. E mentre in Afghanistan i nemici si confondono per via della presenza occidentale, in Pakistan si combatte solo tra pakistani. Tra la Valle di Swat, le agenzie tribali dell’area di confine con l’Afghanistan e il passo del Khyber, dove si varca la frontiera tra i due paesi, il fronte si allarga in microguerre che si mescolano tra loro. Con sintomi di contagio persino nel Belucistan (al confine con l’Iran) e chissà forse anche con la guerriglia in Kashmir o con i gruppi radicali attivi nelle aree urbane». [8]
Secondo Robert Kaplan, tra i maggiori conoscitori della regione afghano-pakistana, «il Pakistan sta diventando uno Stato fallito»: «Fare intese con la guerriglia concedendole spazi di territorio è la strategia che in Colombia portò alla fine degli anni Novanta il presidente Andres Pastrana a cedere alla guerriglia delle Farc con il risultato di indebolire lo Stato». Secondo Kaplan, il presidente Asif Ali Zardari, un civile (vedovo di Benazir Bhutto) eletto nel febbraio 2008 dopo la decennale dittatura del generale Parvez Musharraf, ripete l’errore compiuto da Pastrana perché è un leader debole la cui popolarità è all’8 contro l’85% per cento del leader dell’opposizione Nawaz Sharif. [9] Gli ultimi anni di Musharraf, spinto dagli americani, avevano segnato il primo tentativo serio di riprendere il controllo della provincia ribelle, Washington si aspettava che con Zardari l’esercito continuasse ad avanzare nelle valli del Nord, ma il presidente si è smarcato dal patto. Giordano Stabile: «La nuova linea del governo centrale nei confronti degli estremisti è dettata anche dai delicati equilibri etnici tra punjabi, sindh, pashtun. Zardari ha bisogno di puntellarsi ai potentati locali». [4]
A Washington cominciano forse a rimpiangere Musharraf, liquidato l’estate scorsa con frettolose parole di circostanza. Negri: «Eppure questa tormentata parabola pakistana dove i neo-talebani stanno ingaggiando la loro battaglia era stata pronosticata dagli stessi americani. A febbraio Richard Holbrooke, inviato di Obama, era stato portato in cima al Khyber Pass, cuore pulsante dei pashtun, ad ascoltare pazientemente le proteste per le incursioni americane. Zardari e il premier Gilani volevano far capire agli Usa che qualcosa avrebbero dovuto concedere ai talebani. Le concessioni, puntualmente avvenute nella preziosa valle di Swat dove i fondamentalisti custodiscono la sharia e l’estrazione degli smeraldi, dovevano essere uno spiraglio per negoziare, si sono invece trasformate in una crepa profonda nella fragile costruzione pakistana». [5]
La linea dura adottata dall’amministrazione Obama verso il Pakistan – l’inviato speciale del presidente, Richard Holbrooke, ha ribadito pochi giorni fa che gli aiuti da ora in avanti saranno subordinati a risultati nella lotta ai Taliban – ha esacerbato l’opinione pubblica e reso ancora più debole il governo del premier Gilani e del presidente Zardari. Zahid Hussein, uno dei massimi analisti pachistani: «I Taliban stanno sfruttando la debolezza dell’esecutivo, possono anche scegliere di non arrivare a Islamabad: in fondo non gli serve, hanno già appoggi importanti in città». [6] Kaplan: «Che disegno strategico hanno i taleban pakistani? Conquistare, passo dopo passo, il controllo di diverse aree di territorio per creare uno Stato islamico dentro i confini pakistani e dimostrare che il governo non è sovrano, non rappresenta la nazione». [9]
Vista la debolezza di Zardari, l’iniziativa potrebbe essere presa dall’esercito guidato dal generale Pervez Kayani. Ci sarà un golpe? Kaplan: «Lo scenario è di un colpo di Stato non violento, morbido. Se è vero che l’esercito è parte integrante della debolezza dello Stato resta l’unico a poter evitare la disgregazione del Pakistan». [9] Tranne rare eccezioni, però, al momento i generali pakistani tacciono. Rampoldi: «E il loro silenzio è misterioso quanto la loro inazione. Proviamo a ripercorrere la sequenza che conduce alla ”talibanizzazione” dello Swat. Quel ”mullah Radio” che pare in grado di minacciare uno Stato di 165 milioni di abitanti, non è un Garibaldi islamico, ma un noto pasticcione. E i suoi miliziani non sono molti più dei cinque o seicento che nei giorni scorsi hanno ”conquistato” la valle di Buner. Perché l’esercito, forte di cinquecentomila uomini, ha lasciato fare?». [2]
Il vertice militare pachistano non inclina al fondamentalismo ma, ormai è evidente, non combatte la nostra stessa guerra: la sua priorità è contrastare l’India, tanto più che quella, in buona collaborazione con gli americani, sta rafforzando notevolmente le sue posizioni in Afghanistan. Rampoldi: «Per una cultura militare ossessionata dalla geopolitica, avere gli indiani sia a est che a ovest rappresenta una minaccia esistenziale. Percezione sovreccitata, ma favorita dall’attivismo del servizio segreto indiano in Afghanistan e dai toni bellicosi usati da leader della destra indù nella campagna elettorale in corso. Questo lo sfondo. Ma più immediato, e forse decisivo, è il rapporto sempre più problematico con gli Stati Uniti». [2]
Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Rampoldi: «Che aiutino o no le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini. Fino a ieri lo stato maggiore ingoiava, in cambio di copiosi aiuti militari. Ora anche gli aiuti si sono diradati, mentre a Islamabad si consolida il sospetto che ormai Washington dia retta alla diplomazia indiana, quando ripete: il Pakistan è finito. Non è così. Ma se l’esercito scegliesse una "neutralità" suicida, e se gli occidentali non riuscissero a farlo ricredere, quella potrebbe diventare l’ennesima profezia che si autoinvera, e per il solito motivo: l’inettitudine degli attori». [2]