Emilio Manfredi, L’Espresso, 30 aprile 2009, 30 aprile 2009
EMILIO MANFREDI PER L’ESPRESSO 30 APRILE 2009
Così sono diventato un pirata Un ex pescatore racconta chi sono i nuovi predoni somali del mare
Il mio nome non lo dirò. I nomi non sono importanti in questa storia. Chiamatemi pure Hasan, se volete... La voce arriva in ritardo, distorta dalla connessione satellitare. L’uomo all’altro capo del telefono parla in somalo. Le parole, più che pronunciate, sono urlate. Hasan si scusa per il vento forte. Mentre parliamo, l’uomo è in mare. A bordo di una nave. L’ultima che, assieme al suo gruppo, ha sequestrato. Perché Hasan vive di questo: va all’arrembaggio delle imbarcazioni che, dopo aver attraversato il mar Rosso, transitano al largo delle acque della Somalia, lungo la rotta che dal golfo di Aden scende nell’Oceano indiano. A sentire governi e stampa internazionali, Hasan è un pirata, un corsaro, un bucaniere. Burcad badeer, in lingua somala. Rapinatore del mare. Una definizione che Hasan rifiuta: "Siamo guardacoste", risponde infuriato. Badaadinta Badah, dice l’uomo. "Siamo i difensori del nostro mare e delle nostre spiagge, che la comunità internazionale distrugge ogni giorno, approfittando della guerra".
La Somalia, dal 1991, non conosce la pace. Dalla deposizione del dittatore Mohammed Siad Barre, ogni tentativo di restituire al Paese un governo centrale è fallito. Nessuna delle fazioni in lotta è riuscita, se non per brevi periodi, a riprendere il controllo del territorio. Il mare, così, è stato presto dimenticato. "Avevo meno di vent’anni quando tutto è cambiato". Hasan racconta di un’infanzia umile nella città costiera di Harardere. Viveva in casa con i genitori e i dieci fratelli. Ricorda gli anni di scuola, l’avvicinamento al mestiere: "Come mio padre e mio nonno, il mio destino era fare il pescatore. Andavamo a largo con la piccola barca di famiglia. Il mare era pescoso. Aragoste, barracuda, sardine, tonni. Li rivendevamo la mattina, sul mercato locale. Non ci è mai mancato di che sopravvivere".
Questa vita è stata spazzata via dal conflitto. A terra si combatteva e in molti hanno capito che con il mare somalo si potevano fare ottimi affari. Chi aveva potere si faceva chiamare ’autorità’ e vendeva autorizzazioni ’ufficiali’ a pescherecci che arrivavano da lontano: Giappone, Corea del Sud, Cina, Taiwan. Ma anche Spagna, Italia, Francia. La lista degli Stati coinvolti è lunga. In cambio di molti soldi, si garantiva un pezzo di carta che permetteva di buttare le reti all’interno delle acque territoriali somale. "Per anni abbiamo osservato, cercando solo di continuare a fare il nostro lavoro. Uscivamo in mare, ma la pesca diminuiva a vista d’occhio".
Un’accusa ripetuta in ogni città portuale della Somalia: le grandi imbarcazioni hanno svuotato il mare con i loro enormi strascichi. Tutto vero, a dare retta alle Nazioni Unite, che più volte hanno definito le acque somale ’fuori controllo’. Un rapporto del 2006 punta l’indice contro le flotte internazionali, colpevoli di saccheggiare le risorse ittiche somale e di affamare i mal equipaggiati pescatori locali. In un’altra indagine, l’Onu afferma che, ogni anno, viene esportato illegalmente pesce dalla Somalia per un valore di almeno 300 milioni di dollari.
A sentire Hasan, le responsabilità di chi fa pesca di frodo sono ancora più gravi. "Ricordo la prima volta che successe. Era la metà degli anni ’90. Uscimmo in mare prima dell’alba. Ci avvicinammo a una grande barca. Di colpo ci spararono addosso. Scappammo per salvare la pelle. Da allora, il problema è diventato costante: non possiamo più pescare nelle nostre acque. Ci tagliano le reti. Ci sparano. Acqua con dei cannoni, se va bene. Altrimenti con le mitragliatrici. Spesso i grandi pescherecci sono accompagnati da altre imbarcazioni con a bordo uomini armati. Non vogliono concorrenti". Contemporaneamente, grandi navi cargo hanno cominciato a incrociare al largo della Somalia.
"Molte volte scaricano i barili direttamente in mare", attacca l’uomo: "Altre volte, si accordano con qualche signore della guerra locale e portano i contenitori sino a terra". In molti hanno indagato sul problema dei rifiuti tossici e nucleari che verrebbero scaricati in Somalia. Un affare, secondo i tecnici dell’Onu: rovesciare una tonnellata di scorie nel Corno d’Africa costa a un’impresa europea solo 2 dollari e mezzo, mentre eliminarla in maniera ecologica nei nostri paesi ne richiede 250. Chi denuncia perde il posto. A qualcuno va anche peggio: la giornalista della Rai Ilaria Alpi è stata uccisa a Mogadiscio assieme al cameraman Miran Hrovatin. Era il 1994. Stava indagando sullo smaltimento di scorie nella regione somala del Puntland. Sono trascorsi 15 anni. Nessuno è stato condannato. E nulla sembra essere cambiato.
Il rimorchiatore battente bandiera italiana Buccaneer in questi giorni è costretto all’ancora al largo del porto di Laasqorai. La regione è la stessa di cui si stava occupando la giornalista italiana. I sequestratori sostengono che le chiatte che l’imbarcazione trsporta contengano rifiuti tossici e che l’equipaggio si preparasse a scaricarli in mare, proprio al largo della Somalia. Gli armatori smentiscono seccamente. Hasan non sa cosa trasporti la nave italiana. Ma non ha dubbi sull’entità del problema: "Sulle spiagge intorno alla mia città sono stati depositati centinaia di contenitori. Cosa ci sia dentro, non lo sappiamo. Chi ci vive vicino, però, si ammala e muore. E le navi continuano a scaricare in mare".
I pescatori locali hanno cominciato a organizzarsi. "Alla fine degli anni ’90 abbiamo reagito. I somali che si facevano chiamare governanti usavano la guerra per arricchirsi alle nostre spalle. La comunità internazionale mandava missioni di pace, ma non faceva nulla per fermare questi traffici illegali", insiste Hasan. La sua voce si fa ancora più alta: "Il mare non apparteneva più alla società somala. Dovevamo riprendercelo". In quelle che oggi sono le tortughe della pirateria somala, sono nati gruppi di auto-proclamati guardacoste. Si facevano chiamare Guardia costiera nazionale volontaria, Difensori delle acque territoriali, Marines. "Abbiamo cominciato a rispondere all’aggressione. Nella mia città abbiamo fondato il gruppo la Guardia costiera della Regione Centrale. Difendevamo le nostre piccole barche. Rispondevamo al fuoco dei grandi pescherecci. Impedivamo ai cargo di scaricare rifiuti in mare".
A un certo punto il gioco si è fatto più pesante. Hasan non sa dire quale sia stata la prima nave sequestrata in Somalia. Di certo, non dimentica la sua prima volta: "Era il 2001. Una nave di Taiwan, non particolarmente grande, pescava piuttosto vicino alla costa. Gli abbiamo sparato alcuni colpi. Poi siamo saliti a bordo, issandoci con delle funi. La tenemmo per 15 giorni. Alla fine, ci diedero 50 mila dollari". Una cifra irrisoria rispetto ai riscatti milionari che gli armatori pagano oggi. "Per noi erano tanti, non li avevamo mai visti tanti dollari".
Il fenomeno è cresciuto negli anni, sino a raggiungere le dimensioni allarmanti di questi ultimi mesi. Non passa giorno senza che giunga notizia di un nuovo attacco. "Negli anni ci siamo organizzati. Ai pescatori come me si sono uniti alcuni uomini d’affari. Abbiamo creato una logistica a terra e delle navi-madre, che stanno all’ancora sottocosta. Sono navi che abbiamo sequestrato: viaggiavano senza documenti e nessuno le ha mai chieste indietro. Agiamo in piccoli gruppi coordinati. Abbiamo lance e sistemi d’osservazione moderni: radar, sonar, Gps. Ci sono persone che ci aiutano dai porti di transito e ci informano sugli spostamenti delle navi, e somali all’estero che si occupano di mediare con gli armatori. I soldi interessano a tutti". Di pirati somali si parla ovunque. La politica cerca di capire come fermarli, i media cercano di scoprire cosa significhi vivere di abbordaggi nel Terzo millennio. I corsari somali, si narra, vivono una vita lussuosa. Hasan ascolta a lungo. Poi scoppia a ridere. "Le nostre coste sono regioni molto povere, da sempre. I soldi dei riscatti ci fanno vivere meglio. vero. Il resto sono invenzioni. Ci siamo costruiti una casa decente. Ci siamo comprati una Land Cruiser di seconda mano. Anche perché non se ne può fare a meno: le strade sono distrutte. Nei villaggi la vita per le nostre famiglie è migliorata. Ma non è facile: i religiosi islamici dicono che quel che facciamo è haram, male, e la gente non ci ama. Ma alla fine è solo una questione di sopravvivenza. I nostri soldi vengono ridistribuiti nelle comunità. E nessuno ha più niente da dire".
La voce di Hasan giunge dal ponte dell’imbarcazione che ha sequestrato. Lo ascoltiamo da Gibuti, piccolo Stato al confine con la Somalia. Ci sono le basi militari francesi e americane. Vi sostano le navi militari che pattugliano l’Oceano indiano. "L’intervento armato non è la soluzione", afferma Hasan: "Per fermarci ci vuole pace sulla terraferma. Ci vogliono risposte alla fame dei nostri figli. Altrimenti, non smetteremo. Per questo, non è importante il mio nome. La mia è solo la storia della nostra disperazione".