Sergio Romano, Corriere della sera 24/4/2009, 24 aprile 2009
CHIESA E DEMOCRISTIANI DA PACELLI A MONTINI
Nella sua risposta sulla laicità ( Corriere, 17 aprile) lei si è dimenticato di ricordare che anche nel lungo regime democristiano la Chiesa è stata usata per rafforzare il partito e conquistare maggiore consenso. risaputo che nei confessionali e nelle parrocchie durante il periodo elettorale si parla anche di politica e basta ricordare il simbolo prestigioso della Dc, lo scudo crociato, per capire quanti fedeli siano stati ingannati nell’esprimere il voto andato a un partito che purtroppo ha confezionato troppi personaggi arroganti, vanitosi e incapaci di amministrare il pubblico denaro.
Gaetano Ciocci
Longarone (Bl)
Caro Ciocci,
Credo che il rapporto della Chiesa con la Democrazia cristiana sia stato più complicato di quanto non emerga dalla sua lettera. Durante il papato di Pio XII la Santa Sede agì in molte circostanze come se la Dc avesse l’obbligo di attenersi alle indicazioni politiche che le giungevano dalla Curia romana. Nei mesi cruciali in cui fu scritta la carta costituzionale vi fu un continuo viavai tra piazza del Gesù, sede del partito, e i palazzi apostolici. Durante il Giubileo del 1950 la curia pretese che Roma rinunciasse ai suoi caratteri profani (manifesti «licenziosi », coppiette «spudorate ») per vestire gli abiti austeri della «città sacra». Un episodio rivelatore del modo in cui la Chiesa pretendeva sovrintendere alla politica italiana accadde in occasione delle elezioni comunali romane del 1952. Pio XII temeva che la città avrebbe avuto un’amministrazione di sinistra e cercò d’imporre la formazione di una lista di centro destra con il sostegno dei monarchici e del Movimento sociale italiano. Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi era contrario e riuscì a impedire che il progetto del Papa andasse a compimento. Ma suscitò la collera di Pacelli e fu punito. Quando chiese al Pontefice una udienza privata per sé, per sua moglie (ricorreva il trentesimo anniversario del loro matrimonio) e per la figlia Lucia che stava per diventare suora, il Papa respinse la richiesta. Piccato, De Gasperi scrisse all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede: «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia giustificarla; come presidente del Consiglio italiano e ministro degli Esteri, l’autorità e la dignità che rappresento e dalla quale non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere lo stupore per il rifiuto così eccezionale e di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento ». La reazione era moralmente comprensibile, ma viziata da una certa illogicità. Dopo tutto, De Gasperi aveva chiesto udienza per motivi privati, non per ragioni pubbliche.
Lo stile dei rapporti fra il Vaticano e l’Italia democristiana cambiò dopo la morte di Pacelli. Giovanni XXIII pensava al futuro della Chiesa nel mondo piuttosto che al governo della diocesi italiana. Paolo VI era stato consigliere spirituale degli universitari cattolici, aveva conosciuto e stretto amicizia con alcuni dei ragazzi che erano ormai al vertice del partito, ed era quindi maggiormente disposto a lasciare che le loro scelte fossero dettate da considerazioni di opportunità politica. I rapporti continuarono a essere molto intimi, ma questo diverso stile permise alla Dc di ingoiare, dopo l’inutile battaglia di retroguardia dei referendum abrogativi, i grandi mutamenti degli anni Settanta, dal divorzio all’aborto e al dialogo con i comunisti per la costituzione dei governi di solidarietà nazionale. L’Italia degli anni Settanta e Ottanta non fu laica, ma neppure bigotta e papalina come rischiò di diventare all’epoca di Pio XII.
Quanto alle sue parole sugli uomini della Dc, caro Ciocci, credo che occorra evitare di giudicare persone, partiti e istituzioni dal modo in cui hanno concluso la loro esistenza. La Democrazia cristiana morì male, ma ebbe pur sempre, nella ricostruzione del Paese dopo la guerra, alcuni meriti. Vogliamo lasciare agli storici il compito di fare il bilancio?