Mario Deaglio, La stampa 24/4/2009, 24 aprile 2009
VESTIREMO ALLA CINESE
Dietro le cifre delle previsioni aride e molto imprecise delle previsioni economiche globali per il 2009 si cela, dal lato dell’offerta, un rapidissimo cambiamento del peso e del potere economico dei grandi Paesi e un profondo ridisegno del quadro produttivo del mondo. Dal lato della domanda, si delinea invece un cambiamento di capacità e modelli di spesa, di priorità, di gusti individuali e familiari.
Se anche la crisi passerà abbastanza rapidamente, ossia nel giro di 4-6 trimestri - come viene ufficialmente sostenuto, sia pure con una convinzione sempre minore - questi mutamenti della domanda sono destinati a diventare permanenti. Si ripercuoteranno sul modo di consumare di 2-3 miliardi di abitanti di Paesi poveri che diventeranno un po’ meno poveri nonostante la crisi, e degli abitanti dei Paesi ricchi che potrebbero diventare un po’ meno ricchi.
I gusti e le capacità di spesa della famiglia Smith, della famiglia Dupont o della famiglia Bianchi, oggi alle prese con una crescente precarietà di reddito, stanno diventando meno importanti dei gusti e delle capacità di spesa delle (molto più numerose) famiglie Hu, Singh o dos Santos le quali, pur partendo da livelli bassissimi, hanno alle spalle ormai diversi decenni di allargamento di orizzonti e di crescita dei redditi, e un futuro in cui probabilmente tale tendenza sarà destinata a continuare, sia pure a un ritmo un po’ inferiore a quello del recente passato. Per conseguenza, mentre il numero dei giovani cinesi, indiani e brasiliani che andranno all’università è destinato ad aumentare, il numero dei giovani americani che si recheranno al college si ridurrà in quanto l’istruzione superiore negli Stati Uniti non è gratuita e molte famiglie, prive delle risorse finanziarie necessarie, non possono più ricorrere all’indebitamento. Contemporaneamente continuerà a crescere il numero di abitanti dei Paesi emergenti che possono permettersi cure mediche avanzate; negli Stati Uniti, in attesa che la riforma sanitaria proposta dal presidente Obama possa essere attuata, saranno sempre più numerosi gli americani non più in grado di pagare l’assicurazione sanitaria. E noi europei dovremo tenerci ben stretto l’«ombrello assistenziale» che ci ripara - a un costo molto elevato per le finanze pubbliche - dai costi della nostra salute e che ha già subito parecchie limature.
Se vorranno sopravvivere e prosperare, le imprese, grandi e piccole, che producono i beni di consumo per un mercato mondiale, dovranno adattarsi a questa domanda diversa; e l’innovazione di prodotto proverrà sempre più da direzioni insolite. L’auto meno cara al mondo è stata recentemente presentata da un’impresa indiana e negli Stati Uniti si guarda con un interesse che un tempo sarebbe stato del tutto inusuale alla Cinquecento e ai motori europei a basso consumo di carburante. Nei ristoranti fast food del mondo emergente sono presenti più piatti a base di cereali che hamburger. L’ondata di impopolarità nei confronti delle categorie manageriali potrebbe rapidamente trasferirsi in impopolarità dei consumi vistosi con cui queste categorie spesso si sono identificate in Occidente. Anche se ancora non si intravedono chiaramente le alternative, il tramonto del «modello americano» di consumo potrebbe essere il risultato più duraturo dell’attuale crisi.
L’illusione, diffusa soprattutto tra gli operatori finanziari, che la crisi sia un fastidioso intermezzo, destinato a diventare tra breve un ricordo di cui liberarsi rapidamente per riprendere i giochi e i comportamenti di prima è, appunto, un’illusione: quando l’economia mondiale tornerà a una crescita sostenuta e uniforme, non solo la geografica produttiva e la mappa del potere economico mondiale saranno radicalmente diverse ma anche le priorità personali e i parametri del gusto saranno mutati e risentiranno assai più di oggi di una componente asiatica, o talora russa, latino-americana o islamica.
Già oggi, come aveva osservato lo storico e politologo americano Samuel Huntington, è solo la nostra miopia che ci fa definire «globali» prodotti che sono più semplicemente «occidentali». inevitabile quindi che i nuovi prodotti globali vengano configurati in maniera crescente secondo gusti asiatici e per questo sono frequenti i casi di grandi società che lanciano le loro novità sul mercato cinese e localizzano in Cina o in India centri di design, stile e ricerca. Questa mutazione qualitativa indica abbastanza chiaramente la direzione verso la quale deve muoversi l’industria italiana. Uno dei suoi punti di forza è, da sempre, la rapidità con la quale sa adattare i propri prodotti al mutare delle condizioni esterne; quando lo shock petrolifero del 1974-75 mise nelle mani degli «sceicchi» un inusitato potere d’acquisto, i mobilieri della Brianza prepararono velocemente nuovi prodotti di gusto arabeggiante; lo stile dei gioielli italiani già oggi riflette fortemente il gusto di compratori extraeuropei.
La maggiore reattività, la capacità di interpretare culture e gusti diversi, la flessibilità produttiva sono le armi migliori con cui le imprese italiane possono combattere la crisi attuale. Non bastano, infatti, i pur necessari sostegni finanziari e gli sgravi fiscali che le imprese chiedono al governo. Una sfida analoga a quella attuale, e cioè trovare prodotti nuovi per un mondo nuovo, fu vinta dall’Italia del dopoguerra che propose al mondo lo scooter, una forma nuova di motorizzazione di massa, le macchine per scrivere portatili, il cioccolato a basso costo, i frigoriferi piccoli che entravano anche nelle case dei poveri e tante altre cose ancora. Per sopravvivere e prosperare, le imprese italiane devono svolgere la medesima funzione storica per il mondo che uscirà dalla crisi attuale.
mario.deaglio@unito.it
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