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 2009  aprile 25 Sabato calendario

ACCELERATORE A TAVOLETTA

Cosa fa credere a Sergio Marchionne che potrà salvare Fiat?"
Può darsi che il poker industriale con giocate pesanti sia un gioco che Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fiat, conosce bene. Nel 2005 Marchionne ha costruito le fondamenta della spettacolare guarigione di Fiat strappando 2 miliardi di dollari a General Motors come prezzo per la rimozione di un’opzione che avrebbe costretto Gm a comprare l’azienda italiana, allora malata. Ma anche per gli standard del manager i prossimi giorni saranno un test durissimo sui nervi e sulla resistenza, con due soli risultati possibili. O Marchionne finirà ad avere il controllo di Chrysler, la più piccola delle Big Three di Detroit, o dovrà lasciare il tavolo, consegnando quasi certamente l’azienda americana alla bancarotta. Tutto dipende dalle trattative in corso tra Marchionne, il Tesoro americano, i manager di Chrysler, i sindacati e i creditori.
Marchionne è fiducioso di riuscire a raggiungere un accordo che eviti la bancarotta di Chrysler, ma si rende conto che le cose possono andare male. Ci sono segni del fatto che i sindacati, soprattutto in Canada, dove è basata gran parte della capacità produttiva di Chrysler, sentano di avere già concesso abbastanza. I creditori, che includono JPMorgan Chase e Citigroup, stanno andando avanti e indietro col Tesoro su due questioni: che sforbiciata dovranno dare ai 6,8 miliardi che Chrysler deve loro e se avranno o meno una quota azionaria dell’azienda. Lo stesso Tesoro dovrà trovare ragioni convincenti per concedere i 6 miliardi promessi in cambio di un piano di ristrutturazione credibile. Nonostante Marchionne abbia affascinato gli uomini la task-force sull’auto organizzata da Barack Obama con la sua forte personalità e il suo stile schietto, i funzionari continuano a temere che, anche con l’aiuto di Fiat, Chrysler sia ormai troppo malmessa per potere essere risistemata.
Perché Marchionne è convinto di potere salvare qualcosa da un’azienda che il resto dell’industria considera compromessa e sulla quale non hanno avuto effetto i migliori sforzi prima della ricca e capace Daimler e poi di Cerberus Capital Partners, l’aggressivo fondo di private equity che ha comprato l’80% di Chrysler dai tedeschi due anni fa? Semplicemente perché lui l’ha già fatto. Quando gli Agnelli, gli azionisti principali di Fiat, si sono rivolti a Marchionne – un esperto di turn-around aziendali che stava lavorando in un’altra azienda del loro gruppo – sapevano che la divisione auto di Fiat, che rappresentava la metà del fatturato del gruppo, stava morendo. Gestita malamente, in perdita continua, pesantemente indebitata, appesantita da fabbriche vecchie, con sindacati forti e prodotti fuori moda, Fiat era fallimentare ad ogni livello.
Italiano, ma cresciuto in Canada, dove ha studiato legge e contabilità, Marchionne non si adatta a nessuno degli stereotipi dei suoi due paesi. Agli abiti firmati e alle circonlocuzioni eleganti preferisce maglioni senza forma e una franchezza brutale; invece di costruire con pazienza il consenso, si fa spazio come uno schiacciasassi, seppellendo le consuete politiche aziendali e spianando gerarchie che non funzionano.
L’approccio di Marchionne a Chrysler, se l’affare sarà fatto, dovrebbe essere simile a quello che il manager applicò quando, nel 2004, entrò in Fiat. ”La cosa più importante da fare era smantellare la struttura organizzativa di Fiat – ricorda Marchionne – la abbiamo estirpata in 60 giorni, rimuovendo molti manager che erano lì da molto tempo e rappresentavano uno stile operativo estraneo a ogni possibile comprensione delle dinamiche del mercato”. Al loro posto Marchionne ha portato una giovane generazione di manager che potessero rispondere alle sue esigenze di apertura, affidabilità e rapida comunicazione. Due requisiti chiave che tutti dovevano comprendere erano le necessità di essere veloci e di abbandonare quelle battaglie politiche paralizzanti che avevano portato alla distruzione del poco capitale che c’era a causa di una scarsa standardizzazione delle procedure e un numero ridicolo di piattaforme (19 nel 2006, che diventeranno 6 dal 2012). Il tempo necessario a portare le nuove auto dalla fine del progetto alla produzione è stato ridotto da 26 a 18 mesi, poi è partita una serie di pregevoli nuovi modelli culminata nel lancio, nel 2007, della 500, la vettura modaiola e retrò che ha incarnato la rinascita di Fiat.
Quando si è iniziato a parlare di un’alleanza tra Fiat e Chrysler, qualche mese fa, l’idea era che in cambio dell’accesso alle loro piattaforme per le utilitarie e ai loro motori a bassi consumi, gli italiani avrebbero ottenuto il 35% di Chrysler. Adesso, nonostante la sua quota iniziale sia stata ridotta al 20% e non possa salire sopra il 49% finché Chrysler non rimborserà tutti i soldi pubblici ricevuti, Fiat è molto più salda al posto di guida. Se l’affare sarà concluso la settimana prossima, Marchionne sarà nominato amministratore delegato e un nuovo board di direttori indipendenti verrà reclutato da Fiat e dal Tesoro.
Il bisogno di velocità
Il modello scelto per gestire Chrysler sarà simile a quello utilizzato da Carlos Ghosn quando Renault si è alleata con Nissan. Marchionne dividerà il suo tempo tra le due aziende, mentre un gruppo di manager di Fiat (alcuni dei quali già si stanno concentrando su Chrysler) lavoreranno a introdurre i cambiamenti e sviluppare le sinergie tra le due organizzazioni. Gli italiani sono già rimasti shoccati da quanto sia vasto il management di Chrysler – negli uffici di relazioni pubbliche ci sono circa 10 volte gli addetti che ha Fiat – e da come il processo decisionale sia macchinoso nei suoi passaggi tra vari comitati. ”Se si liberano di queste cose – dice un esperto dirigente di Fiat – sono davvero pronti per uno choc”.
Ma la fiducia di Marchionne nel fatto che Chrysler può essere salvata con la stessa medicina che ha fatto risorgere Fiat non basta a spiegare del tutto perché lui voglia rischiare nel tentativo di ottenere un secondo improbabile miracolo. Non rischia di rovinarsi la reputazione e tirare la fragile gestione di Fiat fino a un punto di rottura? La risposta è che lui è convinto che la crisi dell’industria dell’auto porterà a un consolidamento, e che Fiat, con tutti i suoi successi recenti, è grande meno della metà di quanto occorra per sopravvivere nel futuro. Poi, anche se forse non è pronto ad ammetterlo, il manager ha fatto praticamente tutto quello che si poteva fare con la Fiat attuale, e non c’è affare più soddisfacente e divertente che fare il cacciatore invece che la preda.