Alessandro Piperno, Corriere della sera 22/4/2009, 22 aprile 2009
E BECKETT SMASCHERO’ IL PROUST NICHILISTA
All’ultima devastante serie di cazzotti con cui Mohammed Ali stende George Foreman nella famosa notte di Kinshasa. a questo che penso al cospetto di un libro in cui un Peso Massimo della Letteratura si occupa senza alcun sussiego di un consimile. Un’idea dell’arte agonistica, hemingwayana, ma non solo. Diciamo che mi ha sempre persuaso l’idea un po’ demodé secondo cui non esiste comunicazione più proficua di quella tra sommi scrittori: Baudelaire che scrive di Poe, Mann di Cervantes, Sartre di Flaubert, e così via...
E i critici? Qual è il loro posto in questa festa dell’interpretazione? Temo si debbano accomodare sugli spalti. Ma come? Non sono i critici i depositari delle ultime verità? I distributori automatici di voti? I compilatori di canoni e classifiche? Appunto, roba gustosa quanto inutile. Tanto più che i pochi grandi critici sono, a loro volta, superbi scrittori. E tutti gli altri mi ricordano quell’istruttore di sci della mia adolescenza che mi diceva che Alberto Tomba non aveva stile.
Ed ecco perché amo un grande narratore che mi parla di un grande narratore. Un grande poeta che mi parla di un grande poeta. Mi fido dell’esperienza sul campo, le mani sporche. Restando in ambito sportivo (che ci posso fare? oggi va così), confesso che quando la domenica sera guardo il posticipo calcistico su Sky, tendo a fidarmi più delle analisi tecniche di Bergomi che delle euforiche interiezioni di Caressa.
Forse sarà questa la ragione per cui, sebbene per ragioni deontologiche mi sia trovato, nel corso degli anni, a dover leggere numerose monografie dedicate a Marcel Proust, continuo a ritornare al breve scritto che gli dedicò il venticinquenne Samuel Beckett nel lontano 1931. E forse proprio perché, a una prima occhiata, la coppia Proust-Beckett non appare tra le meglio assortite. Da un lato, il piccolo ipocrita parigino di buona famiglia, il pederasta ebreo, reso stanziale da disturbi psicosomatici di ogni tipo, lo snob ossessionato dalle più raffinate eleganze della vita mondana; dall’altro il ragazzo irlandese, chiuso, secco, in un certo senso persino violento. Cosa c’è di meno proustiano dello stile di Beckett? Come può lo scabro autore di Molloy o de L’innominabile capire le estenuazioni sintattiche della Recherche? E, tuttavia, nonostante questo, Beckett è la persona giusta per comprendere l’essenza e lo specifico dell’opera proustiana. Per una specie di contiguità spirituale situata evidentemente in un luogo più profondo della coscienza di quello in cui si colloca lo stile.
E lo capisci da una lettera indirizzata all’editore Charles Prentice, in cui il giovane Beckett, ancora sconosciuto, offeso dalla notizia che il suo libro su Proust non avrà un’edizione speciale per collezionisti, scrive: «No, certo, i topi di biblioteca non comprenderebbero un’edizione elegante, macchiata da una simile attribuzione. Ma le signore-topo da salotto non amerebbero forse esporre un attestato declamatorio piuttosto che un pamphlet da due scellini? O è forse estinta la razza dei mascelluti proustiani leccaculo? ». Questa lettera viene scritta da Beckett all’inizio degli anni Trenta. Proust è morto in gloria da una decina d’anni. L’ultimo volume della Recherche è fresco di stampa. La sola cosa in cui Beckett fin qui abbia saputo distinguersi è prestare servizio presso James Joyce, aiutandolo a scrivere il Finnegans Wake nell’appartamento di Square Robiac dove Joyce abita in quegli anni. Eppure, come dimostra questa lettera, Beckett è già dotato della spocchia dell’artista da giovane (sarà per via dello stile spocchioso con cui è scritto, se anni dopo Beckett ripudierà il suo libro su Proust).
Certo è che il suo sarcasmo contro «le signore- topo di salotto» e contro «i mascelluti proustiani leccaculo» ci fa capire come lui intuisca il rischio che corre un’opera complessa e seduttiva come la Recherche. Evidentemente è già in atto il grande equivoco che trasformerà ben presto la cattedrale proustiana in una specie di prezioso scrigno ad uso di signore della buona società che vogliono ritrovare i sani sapori di una volta, e commuoversi sui giorni felici dell’infanzia. già in voga la moda di scrivere teneri pallosi memoir simil-proustiani letteralmente ripugnanti. Beckett sa che la Recherche rischia di essere interpretata dai pochi intrepidi che sono riusciti a terminarla come uno dei pochi capolavori capaci di promettere un happy end di lusso. Il Narratore alla fine ritrova il Tempo Perduto, e vissero felici e contenti...
E Beckett non sbaglia. C’è già in giro in quegli anni (persino tra i critici) chi confonde la Recherche per un libro rincuorante con un messaggio preciso: se lavori sodo alla fine capirai il senso della vita e scriverai un’opera d’arte. Il compito dell’arte è di salvare l’individuo dalla triturante azione del Tempo e bla... bla... bla... Non dico che nella Recherche non trovino posto tali trionfalistiche affermazioni. Ma solo che Samuel Beckett è l’uomo giusto per non prenderle neppure in considerazione, concentrandosi sul vero spirito della Recherche: quello malvagio, nichilista, depravato. Che non offre all’uomo che sta affogando alcun salvagente.
Diciamo che Beckett ha le carte in regola per diffidare della vaporosa vulgata proustiana (il Proust per signorine). E lo interpreta alla sua maniera. Così facendo, coglie nel segno. come se Beckett usasse Proust per conoscersi, in tal modo compiendo il percorso che Proust sprona ogni lettore a intraprendere: leggere i libri per leggere se stessi. Così, attraverso l’uso privato e fazioso di opera altrui, Beckett presta un mirabile servizio alla causa proustiana. Rendendo intimi e pregnanti alcuni temi da lui condivisi con Proust: noia, abitudine, l’inevitabile disboscamento della vita affettiva operato dall’esistenza.
Beckett vede in Proust un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri. Che si sente immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfortante nonché beffardo succedersi di fraintendimenti. «L’amicizia, secondo Proust, è la negazione di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano» scrive Beckett, e subito rincara la dose: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione di bidoni delle immondizie». Come si evince dal tono della scrittura, nessuno meglio di Beckett può capire il cinismo proustiano, e il suo disincanto estremista. «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti», scrive Beckett interpretando la famosa asserzione di Proust secondo cui: «l’uomo è l’essere vivente che non può uscire fuori da sé, che conosce gli altri solo in se stesso ». Beckett tiene a spiegarci come queste parole – come ogni discorso pronunciato da Proust – non esprimano alcun punto di vista morale. Anzi, come esse siano fuori da ogni struttura etica. Beckett sa che l’eroe tragico è oltre la moralità borghese: «Il personaggio tragico rappresenta l’espiazione del peccato originale, dell’originale ed eterno peccato di lui, e di tutti i suoi socii malorum: il peccato di essere nato».
Insomma, è leggendo e interpretando Proust, che Beckett impara a essere Beckett. Che Beckett incontra se stesso. E, nel farlo, quasi per caso, ci mostra la vera faccia della Recherche: un’opera dantesca nella sua ambizione di distribuire orribili castighi ai personaggi, ma anche shakespeariana nella capacità di mettere in scena tragedie che dicono tutto ma non insegnano nulla. Bisogna avere fiducia nei grandi pugili.