Sergio Rizzo, Corriere della sera 22/4/2009, 22 aprile 2009
LO STATO PAGA DOPO 138 GIORNI
«La presidenza del Consiglio dei ministri è estranea a ogni rapporto scaturente dalla presente ordinanza ». Firmato: la presidenza del Consiglio dei ministri. Questo passaggio del provvedimento governativo con cui è stato nominato il nuovo commissario per l’emergenza rifiuti in Calabria basta da solo a spiegare che cosa sta succedendo alla Tec, una società che brucia nell’inceneritore di Gioia Tauro la spazzatura calabrese per conto del commissariato.
Un paio d’anni fa il gruppo francese Veolia ha comprato dall’ex amministratore delegato della Cogefar Impresit Enso Papi, uno dei primi a finire nel ciclone di Mani Pulite, il 75% della Termomeccanica, ritrovandosi così proprietario anche dell’azienda calabrese. Florida sulla carta, inguaiata nella sostanza, visto che nessuno paga. Non paga lo Stato, ma neppure la Regione. I crediti della Tec superano ormai 90 milioni di euro. Una parte di essi, quella dei contributi regionali sulle tariffe, aspetta di essere saldata addirittura dal 2004. Con un paradosso: che gli interessi di mora adesso si sono mangiati anche la piccola fetta che era stata pagata. E il debito è tornato praticamente al livello iniziale.
I responsabili dell’azienda hanno chiesto spiegazioni a palazzo Chigi. Sentendosi rispondere dal sottosegretario Guido Bertolaso che non devono battere cassa da Silvio Berlusconi ma dal presidente della Regione Calabria Agazio Loiero. Da allora è cominciato un imbarazzante ping pong. Il governo avrebbe chiesto anche un parere al Consiglio di Stato su certe pendenze, con i francesi sempre più allibiti, al punto da non escludere, in assenza di risposte certe, di lasciare la Calabria.
Gli si può dar torto? In Francia l’amministrazione di Nicolas Sarkozy ha appena fatto una legge che impone alle imprese (tutte, pubbliche e private), di pagare tassativamente entro 30 giorni. La Gran Bretagna ha addirittura ridotto il termine massimo per i pagamenti della pubblica amministrazione ai suoi fornitori da 30 a 8 (otto) giorni. E da noi, dove non hanno certamente tutti le spalle larghe come quelle di Veolia?
Secondo un’indagine della Confartigianato che risale a due anni fa le pubbliche amministrazioni italiane pagano mediamente in 138 giorni, contro una media europea di 68 giorni. Peggio, soltanto il Portogallo. Vero è che in Italia nessuno paga sull’unghia. Anche le grandi imprese come la Fiat sono abituate a prendersela piuttosto comoda con i loro fornitori. Tanto più con la crisi. Ma c’è un limite a tutto. Sapete in quanto tempo mediamente (e si deve sottolineare il «mediamente») le aziende sanitarie locali molisane, secondo l’Assobiomedica, onoravano i propri impegni nel gennaio 2008? In 921 giorni.
Proprio così: due anni, sei mesi e undici giorni. A febbraio 2009 si era scesi a 633 giorni. In linea con Calabria e Campania, le ultime della classe. Ma il bello è che non ci sono progressi reali. A febbraio del 2009 il ritardo medio dei pagamenti delle Asl risultava, sempre secondo l’Assobiomedica, di 288 giorni. Esattamente come nel dicembre del 1990. Perché? «Per due motivi. In primo luogo le pubbliche amministrazioni italiane non credono nel sistema, sono sempre state convinte che meno soldi danno più risparmiano. In secondo luogo la loro affidabilità viene valutata dalle agenzie di rating sulla cassa: meno spendono, più sono considerate affidabili, indipendentemente dal debito», dice il presidente dell’Assobiomedica Angelo Fracassi.
Ma forse nel 1990 i volumi erano diversi. Nessuno è in grado di dire quanti debiti abbiano accumulato le pubbliche amministrazioni con le imprese, prevalentemente nei settori della sanità e dei servizi. E già questo è un fatto decisamente curioso. Ma lo è ancora di più che si litighi su dati che nessuno ha. Confindustria stima che l’esposizione totale sia pari a metà di quei 120 miliardi di euro che ogni anno Stato ed enti locali spendono per acquistare beni e servizi. Stima che il Tesoro contesta, preferendo parlare di una trentina di miliardi, forse meno. In ogni caso la cifra vale da un minimo di due fino a quattro punti di Prodotto interno lordo.
Ma come si è potuti arrivare a questo punto? La colpa non è soltanto di una burocrazia ottusa che partorisce norme apparentemente strampalate come quella dell’ordinanza per i rifiuti della Calabria, che richiama alla mente il «Comma 22» del famoso film di Mike Nichols. Ricordate com’era formulato? «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle
I costi
missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Anche in Italia, pur senza voler considerare la direttiva europea che avrebbe fissato per tutti i Paesi il limite di un mese, esisterebbero un termine più o meno certo per i pagamenti della clientela pubblica: 90 giorni. Ma il condizionale è d’obbligo. I trasferimenti dello Stato arrivano sempre in ritardo. Poi le Regioni ci mettono del loro. Qualcuna si impegna soldi che non ha. E poi c’è sempre quel meccanismo bizantino del bilancio pubblico fatto sia sulla base della «cassa» che della «competenza » (la differenza fra i soldi che materialmente si devono tirare fuori e quelli che invece si devono solo impegnare sulla carta)a complicare le cose. Risultato: i mesi passano senza che nessuno faccia nulla.
Nemmeno le imprese, che ormai (quelle che possono perché non devono pagare troppi stipendi) si sono abituate all’andazzo. Dopo 90 giorni, dice la legge, le aziende dovrebbero far scattare automaticamente gli interessi. Salatissimi. Ma non scattano quasi mai, perché le ditte hanno paura di essere penalizzate nei contratti futuri. Si è arrivati al para-
Le aziende devono sopportare maggiori oneri finanziari per i ritardi: quasi un miliardo l’anno. Di questi, 150 milioni solo per le imprese lombarde dosso che la Campania ha recentemente approvato una legge regionale (impugnata dal governo) con cui si stabilisce che ospedali e Asl non possono subire pignoramenti.
Ogni tanto qualcuno solleva in Parlamento, con emendamenti e disegni di legge, il problema di uno Stato velocissimo a pretendere ma lentissimo a riconoscere i propri debiti. Uno per tutti: Nicola Rossi. Ma le sue proposte, manco a dirlo, non sono state nemmeno esaminate. Le hanno lasciate semplicemente ammuffire nel cassetto. Più comodo andare avanti così, nascondendo sotto il tappeto qualche miliardi di euro di debito pubblico. Pazienza se le imprese aspettano anche anni per incassare il dovuto.
Sentite Fracassi, che è anche presidente della D-group, una impresa che opera nel settore dei sistemi per le analisi di laboratorio clinico: «Il Policlinico Umberto primo di Roma è fallito qualche anno fa. Hanno fatto un’azienda nuova e i fornitori della vecchia sono ancora in attesa. Io sto aspettando da dieci anni. Ma questo è ancora niente: sei mesi fa ho incassato crediti per 300 milioni delle vecchie lire dalla Regione Puglia che risalivano a prima del 1994. E ho dovuto rinunciare agli interessi».
Per non parlare di quello che succede nel settore dei rifiuti. Nel Lazio gli enti locali hanno debiti per circa 200 milioni di euro: a dicembre del 2008 l’Ama, l’azienda municipalizzata di Roma, doveva a Manlio Cerroni, il titolare della discarica di Malagrotta, 135 milioni. A 900 milioni ammontano invece i debiti «pubblici» nei confronti delle aziende che smaltiscono i rifiuti in Sicilia. Regione dove c’è una situazione assurda: il 90% dei Comuni ha trasferito la competenza sui rifiuti alle autorità di bacino, insieme alla riscossione delle imposte. Ma ci si è dimenticati, piccolo particolare, che la Tarsu non copre che il 60% (quando va bene) del costo dello smaltimento. Perciò i soldi per pagare le imprese materialmente non ci sono. Si arrangino.
Insomma, è un pandemonio. Aggravato da norme come quella rinverdita dal governo di Romano Prodi, che vieta alle amministrazioni pubbliche di pagare le imprese che abbiano una sia pur piccola pendenza con lo Stato. Per esempio, un contenzioso fiscale. Tutto questo, naturalmente, ha un costo che è stato calcolato in circa un miliardo di euro l’anno di maggiori oneri finanziari: 150 milioni per le sole imprese della Lombardia.
Come uscirne da una faccenda tanto grave e complicata che l’Authority per i lavori e le forniture pubbliche presieduta da Luigi Giampaolino ha deciso di avviare un’indagine conoscitiva? Nel decreto anticrisi diventato legge alla fine di gennaio il governo ha inserito un paio di norme per agevolare la riscossione di quei crediti. E ora il Tesoro ha quasi completato la stesura dei regolamenti attuativi. La prima norma è la possibilità di far intervenire la Sace, compagnia assicurativa del Tesoro, per dare garanzia alle banche che concedano anticipazioni alle imprese creditrici o per riassicurare polizze stipulate dai creditori garantendosi dal rischio che il «pubblico» non paghi. Iniziativa singolare, considerando che così, anche se indirettamente, lo Stato garantisce il privato contro il rischio che lo Stato si riveli inadempiente.
La seconda norma stabilisce invece che le Regioni e gli enti locali rilascino al creditore una «certificazione» per non avere difficoltà a scontare il credito in banca. Un modulo, come quello che già c’è per lo Stato, nel quale semplicemente si ammette l’esistenza del debito. Un’ovvietà. Se non fosse che quella «certificazione » trasformerebbe automaticamente il debito commerciale in debito pubblico. Motivo per il quale il Ragioniere generale dello Stato è molto preoccupato. Molto. Perché almeno due punti in più, di colpo, su un debito pubblico come il nostro non sono mai uno scherzo. Figuriamoci adesso.