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 2009  aprile 22 Mercoledì calendario

QUANDO DI PIETRO CI FECE TREMARE


A Botteghe uscure, su sei piani, Piero Fassino non ha lavorato o fatto riunioni solo al terzo. Per il resto, l’ex segretario dei Ds, ha parlato pure nel sotterraneo, dove c’era l’archivio dei Partito, e sul terrazzo. E’ lui stesso che suggerisce una conversazione per piani.

Cominciamo dal sotterraneo.
Era il giorno del Comitato centrale convocato due settimane dopo la svolta di Occhetto alla Bolognina. lo ero in segreteria e responsabile dell’organizzazione. Davanti a Botteghe Oscure c’erano un centinaio di compagni che contestavano. lo fui mandato giù per affrontarli.

E li fece entrare?
Sì, ci riunimmo nella saletta del sotterraneo. Fu una discussione calda, dura, aspra. Un militante mi attaccò: «Dici questo perché ci credi veramente o perché ti pagano». Risposi altrettanto provocatoriamente: «Naturalmente perché mi pagano». C’era anche Curzi: venne a manifestarmi la sua ammirazione per come avevo tenuto testa ai contestatori.

Risaliamo: primo piano.
Prima c’è la portineria.

Anche la portineria?
A essa è legata uno dei miei ricordi più drammatici.

Quale?
L’attentato in cui fu ucciso Falcone, nel 1992. lo non ero ancora parlamentare e stavo a Botteghe Oscure. Alla Camera c’era una riunione importante del gruppo per l’elezione del presidente della Repubblica. Mi telefonarono per dirmi di andare, io dirigevo la sezione esteri, e scesi per avviarmi ma il compagno della portineria mi fermò.

Che le disse?
C’era una telefonata urgente per me.

Chi era?
Gianni Parisi, il segretario regionale della Sicilia. Era stato sullo stesso aereo di Falcone e si trovava in una macchina proprio dietro la sua. Lo vide saltare in aria e mi chiamò subito, praticamente in diretta.

Lei come reagì?
Ero incredulo. Gli chiesi: «Ma sei sicuro?». Poi andai alla Camera e fui il primo a dare la notizia a Occhetto.

Torniamo al primo piano.
La mitica commissione Esteri di Pajetta. Lì sono stato nella fase finale della mia permanenza a Botteghe Oscure, dal 1991 al 1996: ho diretto il nuovo partito, il Pds, dentro l’Internazionale socialista. Anche qui ho un ricordo legato alla svolta, il giorno dopo la Bolognina. Era il 13 novembre del 1989, di lunedì.

Ma lei, allora, era all’organizzazione, al quarto piano.
Sì, ma la sala ricavata dall’ufficio di Pajetta era una stanza molto tranquilla. Occhetto la scelse per fare la riunione di segreteria. Fu lì che disse: «E’ chiaro che da qui non torneremo più indietro».

Poi risalì al quarto piano?
Sì, quella sera stessa, finita la segreteria, mi attaccai al telefono e chiamai uno per uno i segretari delle 120 federazioni provinciali. E anche molti dei tesorieri: il partito nuovo che dovevamo costruire aveva bisogno di risorse.

Fece l’alba.
Sì, ma la notte che ricordo di più fu al secondo piano.

Il piano della segreteria.
Erano i tempi di Mani pulite, io ero già agli esteri. Di Pietro aveva annunciato di aver trovato i conti esteri del Pds in Svizzera e ci riunimmo io, Claudio Pet.ruccioli, che era il braccio destro di Occhetto, il tesoriere Marcello Stefanini e Davide Visani, responsabile dell’orgmizmione dopo di me.

E Occhetto?
Se ne tornò a casa dicendo: «Fatemi sapere».

E voi?
Non riuscivamo a capire che cosa aveva voluto dire Di Pietro. Eravamo in preda all’ansia. Il povero Stefanini (poi morto nel 1994, ndr) ebbe un malore e Petruccioli lo accompagno in ospedale, a Trastevere.

Una notte di angoscia.
Facemmo mattina. Poi arrivò una telefonata dall’Emilia che chiarì tutto: Di Pietro si riferiva a dei conti, peraltro legittimi, di una coop con cui il Partito non aveva rapporti. Tutto qui.

Lei conosceva bene il secondo piano.
Era un piano che mi ha sempre colpito per il suo silenzio curiale, che dava solennità al luogo. Nel 1983, da segretario della federazione torinese, entrai nella direzione. Era un altro mondo rispetto a oggi: appena 35 membri e tutti fortemente selezionati. Noi giovani ci trovavamo di fronte esponenti carichi di storia. 1 tavoli erano disposti su quattro file parallele. Ai più anziani erano riservati i due centrali, per una questione di autorevolezza. Noi ci mettevamo sui due laterali. Il segretario era l’unico che poteva intervenire senza alzarsi, la sua scrivania era di fronte ai quattro tavoli.

Poi la segreteria nel 1987.
Mi trasferii a Roma. Occhetto venne eletto vicesegretario di Natta e si formò una nuova segreteria. I coordinatori erano tre: Petruccioli, Gianni Pellicani e io, che mi occupavo dell’attività di massa. C’erano anche D’Alema all’organizzazione, Bassolino all’economia e lavoro, Livia Turco per le donne, Mussi per scuola e cultura. Era la cosiddetta segreteria dei giovani.

Un anno dopo Occhetto divenne segretario.
E io passai all’organizzazione perché D’Alema divenne direttore dell’Unità. Al suo posto entrò Veltroni, responsabile stampa e propaganda. Il tavolo della segreteria era rotondo. Ci fu una volta che fui l’unico a votare contro.

Quando?
Nel 1993. Si era deciso di entrare nel governo Ciampi con tre personalità elette nel nostro partito da indipendenti: Luigi Berlinguer, Augusto Barbera e Vincenzo Visco. Questo la mattina. Poi nel pomeriggio la Camera bocciò l’autorizzazione a procedere per Craxi e Occhetto riunì di corsa la segreteria. Fu votata l’uscita dal governo con un solo voto contrario, il mio.

Fino a quando è rimasto a Botteghe Oscure?
Fino al 1996, quando giurai da sottosegretario agli Esteri del governo Prodi. In realtà dovevo fare il ministro.

Come andò?
Prodi mi voleva all’Industia ma poi le forze armate chiesero al capo dello Stato che il ministro della Difesa fosse espressione del partito principale della coalizione. A Scalfaro fecero due nomi: il mio e quello di Napolitano, che però era destinato all’Interno. Così toccava a me. I militari mi conoscevano benissimo, avevo seguito da vicino le missioni dei soldati italiani nei Balcani.

E invece?
Il capogruppo del Ppi, Gerardo Bianco, disse che il Pds non poteva controllare tutti i corpi tnilitafi e di sicurezza con me alla Difesa, Visco alle Finanze, Napolitano all’Interno e De Castro all’Agricoltura. Gli risposi con durezza perché francamente era una dichiarazione offensiva, che metteva in dubbio la nostra lealtà costituzionale.

Ma non servì.
D’Alema mi chiese un sacrificio: alla Difesa andò Andreatta. Da sottosegretado agli Esteri e poi da ministro del Commercio estero tornavo a Botteghe Oscure per fare le riunioni di direzione. Interruppi questa consuetudine quando giurai da Guardasigilli. Scelsi di avere solamente una dimensione istituzionale.

Nostalgia?
Come si fa a non aveme. Botteghe Oscure è il luogo della mia giovinezza... il Comitato centrale al quinto piano con le sedie di legno prese da un vecchio teatro, il terrazzo al sesto, bellissimo, dove in primavera si teneva qualche conversazione. E poi, lì ho conosciuto mia moglie, la compagna Serafini, lavorava con Rubbi alla commissione esteri. lo la ereditai con la struttura.