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 2009  aprile 17 Venerdì calendario

RESOCONTI DI BOTTEGONE


Quando la politica era una cosa seria e grave, grave sia nel senso di importanza sia in quello di pesantezza, nei quotidiani di partito c’erano i resocontisti.
All’Unità comunista i resocontisti erano amanuensi laici che davano conto fedelmente ai militanti e lettori gli interventi sgranati come un rosario rosso nella liturgia del comitato centraorgano santificato nella mitica sigla Cc. Il Cc si teneva con cadenza regolare ogni mese e mezzo e spesso era abbinato alle riunioni della Ccc, Commissione centrale di controllo. A Botteghe Oscure il salone dove prendevano posto i componenti del Cc, massimo settanta, era al quinto piano. I resocontisti lavoravano in una stanzetta attigua, insieme con i tecnici addetti alla registrazione.
Decano di questo "ordine" ormai estinto del giornalismo italiano è Giorgio Frasca Polara. Esponente storico della stampa parlamentare, Frasca Polara è stato quarantatré anni all’Unità, che comprendono anche i tredici trascorsi a Montecitorio da portavoce di Nilde Iotti,la prima donna a essere eletta presidente della Camera. GFP, come veniva chiamato dai suo redattori, era il capo resocontisti. Prima di accedere nel 1962 al santuario di Botteghe Oscure, Frasca fece il suo vero esame da giornalista con Palmiro Togliatti. Era la fine degli anni cinquanta e il Compagno Segretario era a Palermo per un comizio serale.

Come andò?
lo allora abitavo a Palermo perché i miei si erano trasferiti in Sicilia da Roma. Ero l’ultimo arrivato alla redazione locale dell’Unità, un ragazzino. Il resocontista abituale di Togliatti era Luca Pavolini, ma quel giorno era malato e io ero da solo in redazione. Mi dissero: «Vai tu».
Mi venne una strizza tremenda: il comizio era alle nove di sera quando il giornale era già in stampa.

Cosa accadde?
Andai da Togliatti in albergo e lui mi consegnò gli appunti del comizio che avrebbe fatto, ovviamente scritti con l’inchiostro verde. Tornai poco dopo con l’articolo già pronto. Togliatti lo prese e lo passò a Nilde Iotti, accanto a lui sul divano: «Nilde, vedi un pò cosa ha fatto il nostro giovane compagno». Lei si alzò e si mise seduta a un tavolo: cambiò un aggetivo e tolse una frase. Ce l’avevo fatta.

E poi?
In seguito divenni capo della redazione siciliana. Quand’era direttore Mario Alicata chiesi di fare un’esperienza a Roma. Mi risposero di sì e dopo un passaggio alla redazione culturale mi chiamarono a far parte della squadra dei resocontisti del comitato centrale.

Come funzionava?
Noi eravamo chiusi in una stanzetta attaccata al salone delle riunioni, al quinto piano. Dentro, a fianco dell’oratore, c’era un tavolino dove a turno ci alternavamo. I giornalisti dei quotidiani "borghesi" erano parcheggiati giù. I nostri testi erano rivisti dall’oratore e nei casi più delicati anche da un membro della segreteria. Poi passavano all’ufficio stampa che li fotocopiava e li dava ai cronisti "borghesi". I resocontisti sono esistiti fino al 1991.

Quanti eravate?
Sette, al massimo otto. In occasione dei congressi la squadra si allargava. Umberto Terracini, per esempio, era roba mia. Lo seguivo sempre io. Aveva un intercalare, «nevero», che mi dispiaceva non inserire nei testi. Ognuno aveva i "suoi" esponenti. Ugo Baduel era il resocontista di Berlinguer ma quando si ammalò per un anno toccò a me, che ero anche portavoce di Iotti e capo dei servizi parlamentari dell’Unità. I compiti venivano distribuiti per consonanze regionali e simpatie personali. Non c’era calcolo politico.

Lo spazio sul giornale variava?
Sì. In genere il relatore che introduceva il Cc aveva l’intervento quasi integrale. Le regole erano poche e poco elastiche. Per i dirigenti periferici era prevista una cartella e mezza, per i big alrneno tre.

Il più pignolo?
Giorgio Napolitano, una volta mi disse: «Qua ricordo di aver messo una virgola, dov’è?». Anche Alfredo Reichlin era preciso. Ma c’era un allenamento tale che non avevamo grossi problemi. L’unico momento difficile fu con la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda nel 1969. lo ero già capo dei resoconfisti.

Il caso del manifesto.
Sì. Il clima era pesante ma sempre civile. Si sapeva come sarebbe andata a finire: la Ccc avrebbe optato per la radiazione e non l’espulsione. Una misura più cauta che prevedeva un giorno la possibilità di rientrare. Andai quindi a parlare con Natta, che era il relatore.

Per quale motivo?
Gli dissi: «I loro interventi faranno notizia, ci conviene darli ampiamente, altrimenti i giornali "borghesi" cercheranno di servirsi di altre fonti». Natta, di cui avevo una profondissima stima. riconobbe il valore dell’osservazione e approvò. Scrivemmo senza pensare al numero delle cartelle. Ma il ricordo personale più scioccante è un altro.

Quale?
La morte di Luigi Petroselli, sindaco di Roma, in pieno comitato centrale. Si sentì male e di lì a poco morì. Un’emozione fortissima.

Un ricordo bello?
Quando mi affacciai con Berlinguer al famoso balcone e c’era il nostro popolo sotto che festeggiava la storica vittoria alle amministrative del ’75. Enrico era felice come una Pasqua e sorrideva. Ebbi la percezione netta che eravamo una grande forza.

Lei ha seguito per un anno Berlinguer.
Era una persona deliziosa, terribilmente timida. Quando non era impacciato era capace persino di fare battute spiritose. Ricordo soprattutto le nostre diatribe musicali. lo sono un verdian-belliniano. Lui era un wagneriano.

Wagneriano?
Sì. E si tormentava per questo. Mi chiedeva: «Amo Wagner: sono passibile di sospetto nazismo?».

Che giornalista era il resocontista?
Siamo sempre stati considerati una sottospecie di cronisti. All’Unità c’erano gli "scrittori", tipo Enzo Roggi e Bruno Miserendino, e i resocontisti. Sono stato a capo di fior di giornalisti: Vincenzo Vasile, Stefano Di Michele, Peppino Mennella, Bruno Enriotti, Bianca Mazzoni, Onide Donati, Renzo Cassigoli, Sergio Sergi, Matilde Passa. Qualcuno c’era, però, che non voleva riconoscersi in questa sottospecie.

Chi era?
Antonio Caprarica. Oggi ci sono giornalisti della Rai che nelle loro biografie omettono di essere stati all’Unità. Caprarica diceva: «lo non voglio andare nella squadra di GFP, fatemi scrivere di politica». lo, invece, sono sempre stato fiero di essere un bracciante della tastiera.

Del resto lavorare a Botteghe Oscure era un privilegio.
Vero, era un privilegio. Quante storie e quanti amori clandestini. E poi si scendeva tutti alla libreria Rinascita. L’unico che si autoescludeva da questo rito era Togliatti.

Perché?
Quando l’Unità era a via IV Novembre lui iniziò a frequentare la libreria Tombolini e non cambiò mai.

Nostalgia per il Bottegone?
Non tanto per il palazzo quanto per lo stile cui ci aveva educato il Partito. Avevamo un’identità. Per questo motivo non ho aderito al Pd e mi sono iscritto al Partito socialista europeo.