Varie, 22 aprile 2009
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Ashbery John
• Rochester (Stati Uniti) 28 luglio 1927. Poeta • «John Ashbery non scrive poesie. Compone sinfonie schönberghiane. Crea installazioni polimorfiche e polimateriche. Assembla, rigenerandolo, tutto il rumore di fondo della nostra epoca. uno degli scrittori più singolari degli ultimi quarant’anni, considerato una specie di guru in patria, osannato da giornali come "New Yorker" e "New York Times", amatissimo da Harold Bloom, ma anche ferocemente attaccato dai suoi detrattori. Ashbery lo si ama o lo si odia: non ci sono mezze misure. La sua poesia è una specie di Dna ricombinato di tessere, dove la lezione iperuranica di Wallace Stevens e quella "cosale" di William Carlos Williams si fondono. Come dire Catullo e Lucrezio, Saffo e Apollonio Rodio, Petrarca e Giordano Bruno. La sua lirica è una virtuosistica coda di pavone, dove si dispiega una fibrillante metafisica del quotidiano. Michel Houellebecq ha detto che uno dei fondamenti rivoluzionari di nuove poetiche sarà la riflessione sulla teoria fisica dei quanti. Ecco, Ashbery sembra andare in questa direzione: una perenne oscillazione a nebulosa, indeterminata, innescata non dalle parole ma dallo stato stesso delle cose. A leggere le poesie di Ashbery si ha proprio la vertiginosa impressione che le cose oscillino instabili, modifichino in continuazione le loro coordinate spazio-temporali, sciamino in nebulose di significati. [...] La lingua e i temi di Ashbery sono la polluzione notturna di un erotomane bibliofilo, magistralmente superflui e aggiornatissimi, toccano tutti gli alti e i bassi del vivere, sia esso un vivere quotidiano, mercenario o sublime. C’è la tentazione della sistematicità quale ce la può offrire oggi giorno la Ram di un computer, quasi che poesia per Ashbery sia immaginare che tipo di testo sarebbe in grado di assemblare un elaboratore in stato di grazia, onnisciente e onniricettivo (non a caso Giovanni Giudici parlò di verticalità dell’io abolita). Con queste caratteristiche, si capisce come la sua poesia sia quanto di più vicino si possa concepire alla grande letteratura romanzesca americana degli ultimi decenni, da Pynchon a DeLillo, da Cunningham a Foster Wallace. Si nutre delle stesse linfe e delle stesse urgenze. Ashbery è ciò che sarebbe DeLillo se andasse a capo più spesso. [...] ”Queste cose stupende / sono state piantate sulla superficie di una mente tonda che sarebbe divenuta il nostro tempo presente. / Il segno delle cose appartiene a qualcuno / ma se quel qualcuno fosse saggio / allora l’insieme delle cose potrebbe essere diverso / da quello che si pensava fosse in principio, prima che un angelo bendasse i binocoli” [...] ”Soli con la nostra follia e il fiore preferito / vediamo che in vero non resta nulla di cui scrivere. / O piuttosto, si deve scrivere delle solite cose / nello stesso modo, ripetere sempre le stesse cose / perché amore continui a essere un po’ diverso” [...] ”Perché la sua società fosse in vendita non so dirlo bene. / Le obbligazioni del pensiero dozzinale ci riposizionarono comunque, / e in più dovevi essere un fantasma per apprezzarlo. / Come se ne vedono tanti”. John Ashbery. Uno a cui il Premio Nobel non può sfuggire. Non deve» (Flavio Santi, ”Il Riformista” 22/4/2009).