Paolo Scotti, Il Giornale 22/04/2009, 22 aprile 2009
E poi si dice che la vita non è un romanzo. Più romanzesca di così, quella di Ferdi Berisa, non avrebbe potuto scriverla il più scaltro degli sceneggiatori
E poi si dice che la vita non è un romanzo. Più romanzesca di così, quella di Ferdi Berisa, non avrebbe potuto scriverla il più scaltro degli sceneggiatori. Prendete un bambino rom di otto anni, sul fondo di un gommone che approda, carico di altri ventidue disperati, sulle coste italiane. Aggiungete una madre che l’abbandona, un padre-padrone che lo picchia e l’obbliga ad incontri di boxe clandestina fra minori. E poi figuratevi lo stesso ragazzino che in una casa-famiglia impara a fare il cuoco, trova lavoro in un ristorante di Fano, partecipa ai provini del Grande Fratello, in diretta tv ritrova la madre dopo 18 anni e la sorella dopo 14, e infine, davanti ad otto milioni di telespettatori, stravince il programma agguantando il premio conclusivo di 300.000 euro. Ovvio: il significato di questo trionfo va al di là del trionfo stesso. E questo ragazzo montenegrino di 22 anni, oggi, è una specie di simbolo del possibile riscatto che attende qualunque immigrato clandestino sia disposto ad integrarsi. E a lavorar sodo per riuscirci. «Quand’ero nel Montenegro vedevo la gente morire per delle malattie banalissime, e mi sentivo impotente. Arrivato in Italia ho capito che basta studiare per debellare le malattie. Che basta lavorare per realizzare i propri sogni. Ecco perché oggi voglio diplomarmi all’Istituto alberghiero, e subito dopo iscrivermi alla facoltà universitaria di medicina. Perché voglio imparare a guarire la gente». Ma come? Di solito i vincitori del «Grande Fratello» si buttano a fare calendari osè, ospitate tv, particine in show e fiction... «Beh, lo ammetto: fin da piccolo sognavo di fare l’attore. E almeno un film mi piacerebbe girarlo. Ma so benissimo che fra poco questo turbine di attenzione attorno a me si placherà. Che presto le luci dei riflettori si spegneranno. Nel frattempo non perderò la testa; e alla fine tornerò a fare il cuoco. Io non ho nessun talento particolare: vengo dalla massa, e alla massa tornerò». Ma lei si rende conto che la sua vittoria ha un significato diverso dal solito? Che alcune comunità rom della capitale si sono riunite apposta davanti ai televisori per sostenerla? «Non solo non me ne rendo conto. Mi spaventa. Essere un simbolo per qualcuno è una grossa responsabilità. Rende più facile cadere. E poi nessuno mi aveva mai preso a modello, in vita mia!». Forse questa vittoria potrebbe contribuire a stemperare la diffidenza che in Italia circonda il popolo dei rom. «So che qui non c’è un clima facile per la mia gente. Che posso dire? Ognuno è artefice del proprio destino. I rom s’impegnano poco a dimostrare che possono essere migliori. Ma la nostra è una cultura molto strana. E poi fra di loro c’è la parte buona e la parte cattiva, come fra tutti. Anche se poi tv e giornali fanno di tutta un’erba un fascio». Oggi però qualcuno l’accusa d’aver usato la sua triste, quasi dickensiana infanzia, proprio per risultare simpatico e vincere un reality show. «No, non mi sono mai basato sulle mie vicissitudini per vincere, ma solo su me stesso. Ero proprio io a dire agli altri concorrenti che doveva contare solo la nostra personalità, non il nostro passato». E da parte degli autori del «Grande Fratello»? Nessun calcolo, per sponsorizzare una vittoria «politicamente corretta» come la sua? «Non lo so. Ma non credo proprio». Eppure è stato proprio il suo passato a farla trionfare. O no? «Francamente non so perché così tanta gente mi abbia votato. da lunedì notte che me lo chiedo. Io mi sono messo in gioco per quel che sono oggi: un rom di origini montenegrine, integrato nella società italiana». E con 300.000 euro in tasca. E se suo padre si rifacesse vivo con lei? «So che riceverò telefonate da parenti che non ho mai sentito nominare. Con mio padre ci sarà una riconciliazione, prima o poi. Il passato è passato. Ma non potremo più fare vita in comune. Lui è rimasto nel suo mondo; io sono passato dall’altra parte della barricata. E voglio restarci».