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 2009  aprile 21 Martedì calendario

ATTENTO, CAVALIERE NON FARE A MILANO IL TUO 25 APRILE


Non fatemi tanto sciocco da dare un consiglio pressante a Silvio Berlusconi. Pare che non ne accetti neppure dai suoi assistenti più vicini, dunque immagino quale esito avrebbe il parere di un giornalista. Tuttavia gli dirò che cosa dovrebbe fare in occasione del 25 aprile. Se andare a Milano, come gli ha imposto un ingenuo Dario Franceschini, tanto debole da costringersi a fare il ganassa, lo spaccone. Oppure se celebrare la Liberazione in un luogo diverso. Essendo adulto e vaccinato, deciderà lui. Ma prima voglio ricordargli che cosa è avvenuto a Milano negli altri 25 aprile.

Nel 2003, per esempio, a sperimentare le durezze della sinistra regressista fu Savino Pezzotta, in quel momento segretario generale della Cisl. Era un leader democratico, una persona per bene, un antifascista coerente. Ma alla piazza rossa non piaceva. La sua colpa era di aver firmato il Patto per l’Italia proposto dal governo Berlusconi.

Per questo, in piazza Duomo, Pezzotta fu vittima di una contestazione ininterrotta. Fischi, insulti, urla forsennate. Gli gridarono: venduto, servo dei padroni, torna a lavorare, vai in Confindustria! Una rabbia incontenibile, che insieme al segretario della Cisl offendeva pure la ricorrenza del 25 aprile. Era anche un assurdo salto all’indietro nel tempo. Sembrava d’essere ritornati agli anni Cinquanta, quando la Cisl veniva accusata di essere un sindacato giallo, al servizio del capitalismo più bieco.
Chi aggrediva Pezzotta? A dare la risposta era la stessa piazza. Gli scaldati della sinistra più rancida. Militanti di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani. Tesserati della Cgil con l’orologio indietro di un trentennio. Squadre d’assalto dei Centri sociali. Insomma i soliti noti. Una minoranza, certamente. Ma che confermava una verità: c’era, e c’è ancora, un mostricciolo autoritario travestito da antifascismo.

Andò anche peggio il 25 aprile 2005, sessantennale della Liberazione. In quell’anno al governo stava sempre il centrodestra. Tutta l’opposizione decise di fare dell’anniversario una giornata di lotta in difesa della Costituzione. Un testo sacro che Berlusconi voleva straziare a colpi di maggioranza. Per questo, a Milano, ma non soltanto lì, si vide di tutto. Anzi, di troppo.

Troppa mitologia, accompagnata da un’enfasi condita di errori. Per citarne uno, quello che si lesse nel fondo dell’Unità. Il direttore, Furio Colombo, un giornalista da apprezzare per la precisione dei suoi interventi, rievocò la lotta dei partigiani lungo «tre inverni indicibili sulle montagne». Davvero indicibili perché erano stati due e non tre, gli inverni.

E ancora troppa ”Bella ciao”, l’inno di battaglia cantato da Michele Santoro in tivù. Da allora usato come un’arma impropria contro manifestazioni e oratori sgraditi, da boicottare, da zittire, da cacciare. Troppi anatemi contro il revisionismo. Troppi vade retro contro chi sosteneva che la Resistenza era stata sì una grande prova di dignità nazionale, ma a liberare l’Italia avevano provveduto gli eserciti di due potenze capitalistiche, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Perdendo sul fronte italiano migliaia di giovani soldati.
In quel 2005, a Milano e altrove, la piazza si ubriacò di slogan politici. Tutti contro il governo Berlusconi, ormai al termine del mandato. E contro l’antifascismo democratico, liberale e laico, considerato un nemico. Tre giorni dopo il 25 aprile, Piero Ostellino scrisse sul Corriere della Sera parole sacrosante. Che voglio citare perché Berlusconi, con tutto il daffare che ha, non può certo rammentarle.

Ecco il giudizio di Ostellino: «Pessima, davvero pessima, questa celebrazione del 25 aprile. stata la giornata dell’innaturale divisione fra un antifascismo fondamentalista, integralista, intollerante, intimamente antidemocratico, e l’antifascismo democratico, degradato dal primo a poco meno di un fascismo di ritorno… Se questo è l’andazzo a sessant’anni dalla caduta del fascismo, che senso ha aver fatto la Resistenza per poi celebrarla in quel modo?».

Anche peggio andò il 25 aprile 2006. Confesso che speravo in una celebrazione più calma e liberale.Un paio di settimane prima, Romano Prodi aveva portato alla vittoria il centrosinistra. Berlusconi era stato battuto, sia pure di misura. E pensavo che esistessero tutte le condizioni per una festa pacifica. Mi sbagliavo.

In quell’anno, la festa fu più turbolenta che mai. La Cgil, attraverso il suo settore più potente, i pensionati, decise di fare della ricorrenza una giornata di lotta ”contro il revisionismo e il negazionismo dei crimini fascisti e nazisti”. Vennero messe in vendita le t-shirt della Resistenza. Una mostrava la scritta: ”Aprile 2006. Che liberazione! Bella ciao, Silvio!”. Un’altra strillava, sempre contro il Berlusca: ”L’Italia s’è desta e il 10 aprile ti ha fatto la festa. 1945-2006”. Un’altra ancora: ”L’Italia s’è desta e ha lasciato la destra”. E di nuovo: ”La Liberazione raddoppia!”.

Ci mise del suo anche Prodi. Parlando dal palco di Milano, in piazza Duomo, alzò la mano destra con le dita distese. E gridò, imprudente: ”Governeremo per cinque anni!”. La piazza era tutta della sinistra antagonista, con la connivenza di quella cosiddetta riformista. E il peggio toccò a un ex ministro di Berlusconi e candidato a sindaco di Milano: Letizia Moratti.

La Moratti aveva voluto unirsi al corteo del 25 aprile con il padre. Era Paolo Brichetto Arnaboldi: un signore ormai anziano e in carrozzella, che aveva fatto il partigiano sul serio nella ”Franchi” di Edgardo Sogno. E dopo l’arresto da parte dei tedeschi era stato deportato nel lager di Dachau, riuscendo a sopravvivere.
Contro la Moratti e il padre si scatenò un’ostilità selvaggia e malvagia. Urla, insulti, spintoni. Entrambi vennero espulsi dal corteo per mano di gente che non sapeva nulla della Resistenza vera. La stessa sorte toccò ad altri esponenti di Forza Italia, malmenati e presi a calci. Sotto l’aspetto morale e politico, il finale fu ancora più nefando. L’antifascismo trinariciuto bruciò in piazza Duomo le bandiere di Israele e della Brigata Ebraica.

Anche in questo caso, i violenti misero in mostra la loro ottusa ignoranza. Che cosa sapevano della Brigata Ebraica? Nulla. A cominciare dal fatto che era tutta di volontari ebrei, cinquemila e cinquecento uomini provenienti da cinquanta Paesi. Inquadrata nell’8° Armata britannica, dal novembre 1944 aveva partecipato alla campagna d’Italia, perdendo molti ragazzi, poi sepolti nel cimitero militare di Piangipane, una frazione di Ravenna.

La bandiera della Brigata Ebraica vedeva la stella di David in azzurro, posta fra due strisce anch’esse azzurre in campo bianco. Bastò questo per eccitare la stupida violenza dell’antifascismo trinariciuto. E pure quel vessillo venne fatto a pezzi, calpestato e dato alle fiamme. Il 25 aprile milanese fu talmente ignobile da suscitare un commento molto pertinente di Ernesto Galli della Loggia, che mi sembra di grande attualità.

A proposito delle nefandezze milanesi, scrisse sul Corriere della Sera del 26 aprile: «La democrazia italiana non sa che farsene dell’antifascismo dei faziosi e dei violenti. E non vuole avere niente a che fare con l’antifascismo che sfoga i suoi poveri livori politici, per celare le sue pochezze, per maramaldeggiare».
Le parole di Galli della Loggia ci inducono a riflettere sul grande equivoco storico che sta dentro la Resistenza italiana. La parte maggioritaria dell’antifascismo armato, quella comunista, non combatteva per la libertà del paese. Ma per sostituire una dittatura nera con una dittatura rossa.

Questo è il problema. Di lì nascono le intolleranze violente che emergono nella sinistra a ogni anniversario del 25 aprile. Gli intolleranti sono quasi sempre dei nostalgici dell’Urss e del suo sistema. Non ce l’hanno fatta a portare Stalin in Italia. E adesso, dopo tanti anni, sfogano ancora la vecchia delusione rabbiosa.
Berlusconi dovrebbe cacciarsi nella trappola che lo aspetta a Milano? Non sono mai stato un suo elettore, ma glielo sconsiglio. Farebbe bene, molto bene, a decidersi di onorare il 25 aprile. Ma ha ragione il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, quando dice che ci sono molti altri posti per farlo.
Lasci piazza del Duomo a Franceschini e alle sue infantili provocazioni. Immagino che il fanciullo sbadato che guida il Pd strillerà che l’assenza del premier è una sua vittoria. Lo lasci urlare. Poi riderà bene chi riderà per ultimo. Ossia dopo il voto europeo e amministrativo di giugno.