Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  aprile 21 Martedì calendario

VIVA LA PARITA’ IN PENSIONE TUTTI A 65 ANNI


A metà dicembre 2008, intervenendo a Stresa a un convegno di economisti, ricordai che la Corte di giustizia europea aveva appena condannato il nostro Paese per discriminazione tra i sessi nel pubblico impiego: da noi, infatti, le donne possono andare in pensione a sessant’anni, mentre gli uomini devono averne almeno sessantacinque. Brusio in sala. Quando poi sottolineai la necessità di un intervento tempestivo (...)

(...) del governo per evitare sanzioni multimilionarie, ecco aprirsi le cateratte del chiacchiericcio politico. In pochi minuti le reazioni critiche di decine di parlamentari e sindacalisti si riversarono sulle agenzie di stampa. Sconcertato, le vidi scorrere sul mio iPhone e intanto mi chiedevo: sono io che sogno o sono questi che non sanno di che cosa parlano?

Purtroppo, nel mondo politico e sui giornali gira tanta gente che evita accuratamente di leggere i dossier prima di aprire bocca. Come quel simpaticone del mio bravo collega Roberto Calderoli, che in quelle ore esclama: «Brunetto-scherzetto. Quella detta dal ministro la prendiamo come una battuta». Gli fa eco il sussiegoso Massimo D’Alema: «Se era una battuta, non è spiritosa». S’infervora il rifondarolo Paolo Ferrero: «Un’idea frutto dell’odio verso lavoratori e lavoratrici». Minaccia il solito Podda, della Cgil: «Non ci provare nemmeno, Brunetta. La sollevazione dei dipendenti pubblici (e non solo la loro) sarebbe immediata, di grandi dimensioni e, siamo certi, unitaria». Si scandalizza anche il comunista Piero Sansonetti: «Trovo intollerabile che un governo decida di affrontare una questione di ingiustizia e disuguaglianza sul lavoro, e decida che la prima cosa da fare è togliere un ”vantaggio” alle donne». E ironizza a vuoto anche la scrittrice d’antan Lidia Ravera: «Commovente, il ministro Brunetta: desidera che, finalmente, le donne ricevano, nel mondo del lavoro, lo stesso trattamento dei loro colleghi maschi. Saremo, finalmente, equiparate ai maschi, nel bene e nel male? No, solo nel male. Nei sacrifici resi necessari dalla crisi: anche noi in pensione a sessantacinque anni. Noi ammortizzatori sociali, noi tappabuchi di quel che resta del welfare». Come dire, da ”Porci con le ali” a ”Piccole donne vanno in pensione”...
La pensione funziona così

Rimettiamo le cose al loro posto. La pensione di vecchiaia è il trattamento spettante a seguito del collocamento a riposo del lavoratore per raggiunti limiti di età. Presuppone una data anzianità contributiva ed il limite è stabilito dall’ordinamento del sistema pensionistico, valido per ogni singolo dipendente, pubblico o privato. La pensione di anzianità, invece, si può ottenere prima, purché si risponda al requisito di almeno trentacinque anni di contributi e cinquantotto anni di età. Se non si è raggiunta l’età, si devono avere quarant’anni di contributi.

La sentenza della Corte di giustizia europea del 13 novembre 2008, nella causa C-46/07, non riguarda le pensioni di anzianità, ma solo quelle di vecchiaia e solo per i dipendenti pubblici, nonostante per questi valgano le stesse regole di quelli privati. Attualmente, i requisiti minimi di età per accedere alla pensione di vecchiaia sono di sessantacinque anni per gli uomini e sessanta per le donne, con una contribuzione minima di venti anni. Per le donne, però, quel limite di sessanta anni è solo una possibilità, non un obbligo, giacché, in virtù della non discriminazione per sesso, anche loro possono arrivare, se lo vogliono, ai sessantacinque anni previsti per gli uomini.

Con la sentenza del 13 novembre 2008, la Corte di giustizia europea ha condannato la Repubblica italiana per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto di percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse, a seconda che siano uomini o donne, venendo meno agli obblighi stabiliti dall’articolo 141 del Trattato Ce. L’effetto della sentenza non è che le donne, ora, «possono» andare in pensione anche a sessantacinque anni, perché lo potevano già prima. Sono semmai gli uomini che, nell’impiego pubblico come in quello privato, non possono andare in pensione a sessant’anni, anche se hanno venti o più anni di contributi. La sentenza, pertanto, ci condanna a causa della discriminazione sulla sola base della differenza sessuale. Tanto la procedura d’infrazione, quanto la successiva e qui descritta sentenza, non hanno riguardato i dipendenti privati, per la sola ragione che il sistema previdenziale amministrato dall’Inps è considerato «regime legale», volendo con ciò significare che risponde ad una logica di diritti che possono perseguire un disegno di parità anche attraverso differenze di trattamento rientranti nell’autonoma determinazione delle politiche sociali, e si colloca quindi nell’ambito di applicazione della direttiva 79/7/Cee. Mentre il sistema Inpdap (Istituto nazionale della previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica), che pure segue esattamente le stesse regole, è considerato «regime professionale», ovvero un regime in cui la pensione è sostanzialmente una voce retributiva differita, perché è corrisposta al lavoratore dal suo ex datore di lavoro, quindi deve adeguarsi all’art. 141 Ce, che non ammette disparità di trattamento tra i generi in materia retributiva. Scusate, può sembrare pedante, ma noi siamo stati chiamati ad ottemperare ad una sentenza di condanna, quindi se ne devono conoscere i contorni e non ci si può accontentare delle sparate retoriche.
La lezione di Einaudi

Il grande economista Luigi Einaudi, già presidente della Repubblica, amava ripetere: «Conoscere per deliberare». Per decidere, insomma, si deve prima studiare. Continuiamo invece a convivere con la maledizione implicita nelle sue famose «prediche inutili»: idee, proposte e suggestioni che condensava in articoli puntuali e documentati, ma che poi, affidati ad un dibattito pubblico spesso superficiale e vociante, restavano lettera morta. La reazione al mio intervento a Stresa ha seguito purtroppo le stesse logiche. I moltissimi che si sono affrettati a degradare il mio intervento al rango di «provocazione» si sono infatti guardati bene dall’attenersi ai fatti, studiandosi il dispositivo della sentenza della Corte e ragionando sui numeri. Per costoro, purtroppo, la realtà è ancora una subordinata della propaganda.

Tutto nasce dalla legge 421 del 23 ottobre 1992, che definisce il regime pensionistico dei dipendenti pubblici e degli altri lavoratori del settore pubblico, nonché dei lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico. Tale regime pensionistico è gestito dall’Inpdap. Secondo il decreto legislativo 1992, n. 503, i dipendenti pubblici hanno diritto alla pensione di vecchiaia nell’ambito del regime gestito dall’Inpdap alla stessa età prevista dal sistema pensionistico gestito dall’Inps per le categorie generali di lavoratori: 60 anni per le donne e 65 per gli uomini. La Commissione europea ha però ritenuto che tale regime pensionistico, essendo un regime professionale e non legale, fosse discriminatorio e ha chiesto alla Corte di valutare se, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse, a seconda che siano uomini o donne, l’Italia violi il principio della parità di trattamento (art. 141 Ce).

L’Italia ha inutilmente contestato la valutazione della natura professionale del regime pensionistico gestito dall’Inpdap. Nel determinare se una pensione prevista dalla legge, che lo Stato corrisponde ad un ex dipendente, rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 Ce oppure in quello della direttiva 79/7/Cee, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, la Commissione rinvia alla giurisprudenza della Corte ed ai tre criteri che ne risultano: che il beneficio interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, che sia direttamente in funzione degli anni di servizio prestati e che il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico. Non sarebbe sufficiente per escludere il regime dal campo di applicazione dell’art. 141 Ce, né che il regime pensionistico gestito dall’Inpdap sia disciplinato direttamente dalla legge, né che sia improntato all’obiettivo di politica sociale di tener conto delle regole del sistema pensionistico gestito dall’Inps riguardante categorie generali di lavoratori. Rileva invece che la pensione sia versata dallo Stato come ex datore di lavoro.

L’Italia ha ancora contestato l’inadempimento addebitato, facendo valere il carattere legale del regime pensionistico. Inoltre, i limiti di età sono uniformemente stabiliti, sia per i lavoratori iscritti all’Inps sia per i lavoratori iscritti all’Inpdap. Pertanto, la normativa contestata manterrebbe, proprio in quanto conforme a quella applicabile alle categorie di lavoratori iscritti all’Inps, una valenza generale, tale da far considerare il regime pensionistico gestito dall’Inpdap come avente natura legale. Ma la Corte non è stata d’accordo. L’argomentazione è la seguente: ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, e per retribuzione s’intende il salario di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. Per valutare se una pensione di vecchiaia rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 Ce, soltanto la constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce al suo ex datore di lavoro può avere carattere determinante. Gli argomenti dell’Italia, relativi al metodo di finanziamento dell’ Inpdap, alla sua organizzazione ed alle prestazioni diverse dalle pensioni che esso conferisce, diretti a dimostrare che tale regime costituisce un regime previdenziale che non rientra nel campo di applicazione dell’art. 141 Ce, non possono essere accolti. Quindi i dipendenti pubblici che beneficiano del regime pensionistico gestito dall’Inpdap costituiscono una categoria particolare di lavoratori ed il fatto che tale regime si applichi anche ad altre categorie di lavoratori non può privare i dipendenti pubblici della tutela conferita.

Per quanto riguarda gli altri due criteri (ossia che la pensione sia direttamente proporzionale agli anni di servizio prestati e che il suo importo sia calcolato in base all’ultima retribuzione), la Commissione deduce dalla relazione presentata dall’Inpdap che la pensione viene calcolata con riferimento al numero di anni di servizio prestati e allo stipendio base percepito prima del pensionamento. Questo metodo risponde ai criteri accolti dalla giurisprudenza della Corte. Ne deriva - continuano i giudici - che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’Inpdap deve essere qualificata come retribuzione.
Discriminazione da cancellare

A proposito della previsione di età diverse, a seconda del sesso, la Corte non ha accolto l’argomentazione italiana che la determinazione di tale condizione è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. Al contrario, per la Corte la determinazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non compensa gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici donne e non le aiuta nella loro vita professionale né pone rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera. Quando ho proposto, pertanto, di uniformare le due età di pensionamento, portando quella delle donne allo stesso livello di quella degli uomini, non ho chiesto di introdurre, ma di cancellare una discriminazione, uniformando l’Italia ai criteri di equità e giustizia che vigono nell’Unione europea. Cosa che, oltretutto, si può facilmente fare proprio recependo le direttive europee. Ma in questo benedetto Paese, popolato da tanti europeisti a chiacchiere, mi sono saltati addosso come se ce l’avessi con le donne. Invece di parlare a vanvera avrebbero dovuto riflettere sul fatto che, spingendo le donne a ritirarsi appena possibile dal lavoro, se ne smorza la carriera e le si costringe al danno di una rendita pensionistica calcolata su uno stipendio inferiore. Non solo. Poiché le donne (beate loro) hanno una vita media superiore a quella degli uomini, si fa di tutto per mandare a riposo chi ci resterà più a lungo. Ne viene fuori un capolavoro di irragionevolezza, che al danno individuale somma quello collettivo. Ferme restando le norme sui lavori usuranti, si preferisce insomma inseguire una retorica immaginifica pur di non vedere come sia da tempo scomparsa - in settori come la scuola o la giustizia - ogni ragione di distinzione fra maschi e femmine. Molti (perché si tratta quasi sempre di maschietti) vorrebbero poi le donne anzitempo in pensione affinché possano dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. A questi strani progressisti replico che le famiglie nascono e si sviluppano quando i coniugi hanno all’incirca fra i venti e i quaranta anni, non quando hanno superato i sessanta. E che la famiglia non è una competenza esclusiva delle donne: la cultura sessista e discriminatoria che le relegava a dolci angeli del focolare mi sembra superata da un pezzo. però fondamentale che le famiglie (non solo le donne) dispongano di servizi in grado di aiutarle quando i doveri verso la prole entrano in conflitto con la necessità-opportunità dei coniugi di lavorare fuori da casa. Anche stavolta avremmo molto da guadagnare nell’adeguarci agli standard europei. Quindi asili, assistenza all’infanzia, scuole con il tempo pieno. In modo che i bambini abbiano giornate produttive e divertenti, che non siano lasciati in «depositi», ma in luoghi dove il tempo è messo a frutto, ed in modo che entrambi i genitori possano continuare la loro attività. Un tempo queste esigenze si sentivano meno, perché le famiglie avevano una struttura modulare, con i nonni, e specialmente le nonne (perché nella famiglia patriarcale i bambini erano faccenda da donne), che svolgevano una funzione sussidiaria. Oggi non è detto che i nonni siano a portata di mano, e neanche che siano disponibili, perché il benessere porta con sé anche maggiore libertà e voglia di muoversi. Le famiglie di oggi, magari, sono «allargate», ma nel senso che sommano disfunzionalità e gravano maggiormente sui due adulti-genitori. , allora, nel soddisfacimento di questi bisogni che la collettività deve investire, creando strutture e condizioni idonee.

Insomma, a me pare di vedere un nesso nel fatto che il Paese con minori centri per i bambini è anche quello con minore natalità. E quel Paese, in Europa, è l’Italia. Tutto questo senza dimenticare, ed è il secondo punto, che l’esternalizzazione della gestione dell’infanzia mette i due genitori sullo stesso piano, non richiedendo alcuna «specializzazione» sessuale. Basta frequentarlo, il mondo dei bambini, dalle scuole alle festicciole, per sapere che sono numerosi i padri che collaborano attivamente alla gestione della prole. Tuttora meno delle madri, certo, ma in numero significativamente, e secondo me positivamente, crescente. Questa realtà, come si vede, non c’entra proprio nulla con l’età in cui si va in pensione, perché prende corpo trenta o quarant’anni prima! Ecco perché sostengo che vi siano ottimi motivi per ottemperare alla sentenza della Corte europea. L’alternativa sarebbe il pagamento di una multa salatissima e il mantenimento di un sistema iniquo. Conservatori ad oltranza non perdono invece l’occasione per segnalarsi quali nostalgici di un mondo nel quale eravamo meno liberi e meno ricchi. A dar loro retta, si dovrebbe archiviare con un’alzata di spalle la lunga e faticosa stagione del progresso femminile nel lavoro e negli studi.
Tre cose false su di me

Scusate, ma non ci sto. Proprio per niente. Così come non accetto che mi venga appiccicato addosso lo stereotipo di ministro che prima ha voluto punire gli impiegati pubblici, poi se se l’è presa con i disabili e adesso si accanisce contro le donne. La prima cosa è falsa, la seconda offensiva, la terza campata per aria. Altro che aria! La sentenza doveva essere eseguita entro sessanta giorni (benché il termine non sia perentorio), quindi entro il 13 gennaio 2009. In caso contrario il nostro Paese sarebbe stato messo in mora. Per questo il 12 gennaio il ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi e io abbiamo inviato a Bruxelles una lettera nella quale il nostro Governo comunicava ufficialmente la sua intenzione di adempiere a quanto richiesto. Eliminando ogni discriminazione e creando un sistema elastico, nel quale conti innanzitutto la volontà del singolo lavoratore, della singola lavoratrice.

Non era stata di caratura superiore l’assurda gazzarra sui precari. ottobre 2008 la Cgil e alcuni parlamentari dell’opposizione erano infatti riusciti a inventarsi un Brunetta sadico e capriccioso che voleva lasciare in mezzo a una strada 60.000 ricercatori con contratto a termine. 60.000, nientemeno. Si trattava, di fatto, di complessivi 4523 casi, di cui solo 1886 in possesso dei requisiti per un’eventuale stabilizzazione. Rimessi al loro posto i numeri, sui quali non si può discutere se non con la pretesa che di notte ci si abbronza e di giorno c’è buio, naturalmente mi rendo conto che anche per quel ridotto numero il problema è serio. Il fatto è che, ancora una volta, prima di parlare si dovrebbe conoscere la materia o, almeno, i suoi contorni essenziali. In realtà, non ho fatto altro che dare applicazione ad una circolare del 18 aprile 2008, preparata e firmata dal mio predecessore, Luigi Nicolais, compagno di partito di quelli che straparlavano. Tale circolare limitava le possibili stabilizzazioni agli anni 2008 e 2009, e stabiliva che «le amministrazioni potranno ricorrere alla procedura speciale di stabilizzazione nel rispetto dei principi costituzionali ... del regime assunzionale di riferimento per ciascun settore e dei vincoli finanziari in materia di spese di personale». A parte il linguaggio burocratico, Nicolais aveva fatto bene a mettere per iscritto quelle puntualizzazioni, perché i giornali avevano rilanciato l’intenzione del governo Prodi (di cui lui faceva parte) di procedere ad una specie di stabilizzazione di massa, il che faceva certo piacere ai cosiddetti precari, ma era privo di copertura finanziaria. Non c’erano i soldi, insomma.

Inoltre, ed è quello che più conta, Nicolais faceva esplicito riferimento ai principi costituzionali, e nella Costituzione è scritto che nella pubblica amministrazione si può entrare solo per concorso. «Solo», è chiaro? Invece, negli anni, quel principio è stato aggirato ed in alcuni settori, come la scuola, il numero dei dipendenti che non hanno mai superato un concorso è impressionante. Dopo di che non si può certo sperare che la non selezione dei docenti porti maggiore qualità e selettività per i discenti. Quindi, non ci si può lamentare, al tempo stesso, perché la qualità della scuola è bassa (il che è vero ed intollerabile) e perché non si prendono nuovi insegnanti senza averli selezionati. D’altra parte è pur vero che molti di loro vengono tenuti in sospeso per anni ed anni, con contratti a termine che rendono incerta la loro vita. Non perché, voglio essere chiaro, la vita diventa certa e stabile solo per chi dispone di un lavoro a tempo indeterminato - anzi, dobbiamo abituarci ad un mercato che vedrà diminuire questo] tipo di contratti -, ma perché i docenti non si trovano in un mercato veramente libero, hanno come interlocutore l’immane figura della scuola pubblica e l’incertezza del rapporto di lavoro si traduce in incertezza circa il futuro. Un lavoratore non solo può accettare, ma può addirittura trarre grande vantaggio dall’incertezza relativa alla durata dell’ingaggio, a patto però di trovarsi in un mercato aperto e concorrenziale, nel quale far valere le proprie capacità e conoscenze. Se, invece, il mercato è chiuso ed il merito, quindi il valore, non viene premiato, dall’incertezza trae solo svantaggi. Si tratta di problematiche complesse, cui ho dedicato gli studi di una vita, ma la cui soluzione non è l’immissione nella scuola ope legis di moltitudini ex precarie di insegnanti, giacché in questo modo si rende un pessimo servizio ai cittadini.
I sei mesi della discordia

Il mio provvedimento, contestato in maniera così cieca, non faceva che ridurre di sei mesi (poi diventati cinque) i termini previsti da Nicolais. In compenso ho avviato un monitoraggio meticoloso di quali e quanti sono i contratti a termine, e di quali sono le caratteristiche professionali degli intestatari. Per questo ho convocato tutti i responsabili degli enti di ricerca, in modo da impegnarli a fare chiarezza. Altrimenti giochiamo a mosca cieca con i problemi ed illudiamo persone che, invece, meritano e, anzi, hanno il diritto d’essere trattate con lealtà e trasparenza. La mia presunta «cattiveria», insomma, era solo chiarezza, sincerità. Non sono disposto a prendere in giro nessuno, né credo che qualcuno ami essere menato per il naso. Ma non amo il todos caballeros della sinistra. Fa male allo Stato, fa male ai giovani. Il nostro dovere è quello di tornare al dettato costituzionale e riaprire la via retta dei concorsi, della selezione, della qualità. Chi potrà competere ne trarrà solo benefici e non si sentirà più intruppato con raccomandati ed impreparati. Chi non ne sarà capace sarà spinto a trovare altrove la possibilità di eccellere, non perdendo tempo e non facendo sprecare ricchezza agli altri. proprio vero: la buona politica è fatta di scelte difficili. Anche se è bene non prendersi mai troppo sul serio.