Matteo Fagotto, La stampa 21/4/2009, 21 aprile 2009
NON VOGLIO UN PAGLIACCIO LEADER DEL MIO SUD AFRICA"
Sono le undici di mattina di una fresca domenica autunnale a Johannesburg e, a fianco di un infermo Nelson Mandela riesumato per l’occasione, il leader dell’African National Congress, Jacob Zuma, sta tenendo il discorso conclusivo della sua campagna elettorale. Ma la marea giallo nera che affolla gli spalti dello stadio di Ellis Park, giunta da ogni parte del Sud Africa per vedere il suo eroe, non è qui per ascoltare uno scontato programma elettorale presentato in un inglese zoppicante. Concluso il suo intervento, Zuma ricompensa la pazienza degli astanti e, ballando assieme ai 40.000 spettatori in estasi, intona finalmente Umshini wami («Portatemi la mia mitragliatrice»), la canzone dei militanti dell’Anc divenuta, negli ultimi anni, il suo cavallo di battaglia. A un migliaio di chilometri di distanza, nel salotto di un’elegante casa di Camps Bay, uno sgomento studente universitario di nome Peter Patterson guarda lo show in televisione, a metà tra l’incredulo e il terrorizzato. «Non posso credere che tra pochi giorni questo pagliaccio sarà il mio Presidente», sussurra. «Questa non è neanche politica, è solo uno spettacolo per le masse».
Campione dei poveri e della popolazione rurale, spauracchio dei bianchi e della classe media, Jacob Zuma racchiude le due anime del Sud Africa che, mercoledì prossimo, si scontreranno in quelle che sono state definite le elezioni più importanti nella Storia del Paese. L’élite ricca e istruita, cinica e disinteressata alla politica, attende con rassegnazione che lo «Zulu boy» prenda il potere e trasformi il Sud Africa in un nuovo Zimbabwe; dall’altra parte della barricata, i milioni di poveri che affollano le townships guardano con gioia all’ascesa di Zuma, sperando che l’ex ragazzo-pastore riesca a mantenere quelle promesse (lavoro, case e servizi decenti) che il governo non è stato in grado di onorare in 15 anni di democrazia.
Al di là delle aspettative, l’esito delle elezioni non è in discussione: gli ultimi sondaggi danno all’Anc almeno il 60 percento dei voti (con punte dell’80 tra la popolazione nera) e il controllo di almeno otto province su nove. Per l’opposizione, l’unico obiettivo è quello di impedire all’Anc di raggiungere i due terzi delle preferenze, che darebbero al partito la facoltà di modificare unilateralmente la Costituzione. Una facoltà di cui l’Anc non si è mai avvalso finora.
Per sbaragliare la già blanda concorrenza della Democratic Alliance, guidata dal sindaco di Città del Capo Helen Zille, e dei «dissidenti» dell’Anc confluiti nel nuovo Congress of the People (Cope), il partito di Zuma non ha badato a spese, grazie a un budget tre volte superiore a quello dei due rivali, messi assieme e a una campagna elettorale che ha raggiunto chiese, ospedali e perfino le isolate comunità di afrikaaners nostalgici del dominio bianco. Il tutto condito con una buona dose di clientelismo, inevitabile in un Paese dove il partito di governo si confonde con lo Stato e in cui, secondo le denunce dei media locali, pubblici ufficiali e amministratori distribuiscono sussidi e aiuti in cambio di voti.
Ma nonostante gli scandali e la disillusione che hanno accompagnato la fine dell’apartheid, i vecchi combattenti per la libertà sono molto amati. «Non sopporto questo allarmismo contro un partito che è la nostra Storia», spiega H.R., un poliziotto che preferisce rimanere anonimo perché non autorizzato a parlare con i media. «Se un leader fallisce, ne viene scelto un altro tramite libere elezioni, come è successo con Zuma all’ultimo congresso. Perché accanirsi tanto contro di lui? Forse perché ora anche i poveri potranno avere qualcuno che li rappresenti?». Ma stavolta, secondo l’opposizione, la situazione è diversa: Zuma non è un padre dell’indipendenza come Mandela, né un membro della classe media nera istruita come l’ex presidente Thabo Mbeki. E’ un combattente e autodidatta, uscito indenne da un processo per stupro e da accuse di corruzione che l’hanno inseguito negli ultimi otto anni. Non il prototipo di politico ideale a cui affidare le sorti di un Paese in recessione, dove la disoccupazione supera il 20 per cento e in cui l’arrivo del campionato di cricket indiano, emigrato in Sud Africa per ragioni di sicurezza, è stato accolto come una boccata di ossigeno vitale per l’economia. E mentre milioni di poveri languono nelle periferie vivendo di espedienti, il Paese deve fare a meno di alcuni tra i suoi cervelli più brillanti, costretti a emigrare per il sistema delle quote riservate ai neri. «Questo Paese funziona all’incontrario», spiega Luke W., un cuoco che ha deciso di votare per l’opposizione. «Quando anche nelle squadre di rugby l’allenatore ti dice che otto in squadra devono essere neri, ti chiedi che senso ha continuare a vivere qui».