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 2009  aprile 21 Martedì calendario

LA POLITICA INGLESE SCOPRE IL «DOPING FINANZIARIO»


Belle a vedersi. Forti, anzi fortissime. Ma indebi­tate fino al collo e sull’orlo del crac. Al punto che i bilanci del calcio italiano, al confronto, so­no un esempio – e si fa per dire – di lungimiranza e di oculatez­za. Parliamo del football inglese mai di moda come di questi tem­pi.

Tre squadre (Manchester Uni­ted, Chelsea, Arsenal) fra le pri­me quattro nel Gotha della Champions League, un’altra, il Li­verpool, che ne è fuori per un sof­fio, una nazionale che grazie a «mister Fabio» può guardare con speranze crescenti ai Mon­diali del prossimo anno, infine una lunga lista di campioni e campioncini da provocare invi­dia. Senza dimenticare che gli sta­di sono sempre stracolmi, che i contratti con le televisioni sono abbondanti, che il marketing va a gonfie vele nonostante la crisi e che i tifosi possono rinunciare a una birra ma non alla maglietta e alla sciarpa coi colori del cuore. Eppure, nonostante questa lunga premessa, i grandi e i pic­coli team della Premier e delle se­rie cadette tirano avanti grazie a una politica molto semplice: pre­stiti, prestiti, prestiti, possibil­mente senza dare in garanzia un mattone, un pallone o una tuta (con l’eccezione dell’Arsenal che a copertura ha dato niente meno che il suo nuovissimo stadio). E, fino a che ci sono padroni alle spalle che mettono del loro, tut­to, anche se con fatica, si ripiana. Se invece le fondamenta sono de­boli o debolissime si arriva sul punto del baratro.

I nodi sono venuti al pettine. Di doping finanziario il calcio in­glese rischia di lasciarci le pen­ne. E a starne peggio pare che sia­no proprio i club della fascia più alta. L’invincibile o quasi Man­chester United dell’imprenditore statunitense Malcolm Glazer, il Chelsea di Roman Abramovich, il Liverpool dei miliardari ameri­cani Tom Hicks e George Gillet. La situazione è al limite del para­dossale: i club sono finanziati, senza esclusione alcuna, dalle maggiori banche. Le banche tra­volte dalla crisi sono state salva­te dallo Stato e nazionalizzate. Per banalissima proprietà transi­tiva il calcio inglese è in buona parte controllato dal governo di Sua Maestà. A meno che i magna­ti a stelle e strisce o gli emiri ara­bi (è il caso dell’altro Manche­­ster, il City comperato dallo sceic­co Mansour membro della fami­glia reale di Abu Dhabi) sottoscri­vano l’assegno riparatore. Il gior­no in cui si stancheranno, viste le cifre in ballo (per il Chelsea e il Manchester si parla di voragini attorno ai 600 milioni di euro a testa) il sogno si sgonfierà. E sa­ranno dolori. L’allarme per il calcio inglese questa volta scatta niente meno che dai banchi di Westminster, vale a dire dal Parlamento. Ben 150 fra Lord e membri della Casa dei Comuni costituiscono l’All Party Football Group che cerca di guardare con qualche curiosi­tà nelle pieghe delle tesorerie cal­cistiche.

Dallo scorso anno, com­plice anche la ricaduta del terre­moto economico, ha cominciato a convocare manager e presiden­ti per capire un po’ meglio lo sta­to dell’arte. E il verdetto arrivato ieri, a conclusione dell’inchiesta, è il pollice all’ingiù. Alan Keen, che presiede questa commissio­ne, ha usato un aggettivo per de­finire i risultati ai quali Westmin­ster è giunta: terribili. Catastrofe da «doping finanziario». I tifosi inglesi non lo sanno ma la vulne­rabilità delle loro magnifiche squadre non sta nelle difese alle­gre bensì nelle pieghe dei bilanci drogati. La pacchia è finita. l’ora dell’austerity.