Raffaele La Capria, Corriere della sera 21/4/2009, 21 aprile 2009
MALAPARTE GRAN BUGIARDO IL SUO TRUCCO C’E’ E SI VEDE
Avevo già espresso più volte il mio estetico dissenso per La pelle e in generale per lo stile e il gusto di Curzio Malaparte, e così sono rimasto sorpreso leggendo Un incontro di Milan Kundera (Adelphi), che invece sembra ammirarlo moltissimo. Poco male, due opinioni diametralmente opposte su uno scrittore molto discusso, e quella di Kundera molto rispettabile per la considerazione che ho di lui. Mi ha colpito però che a Kundera siano piaciuti proprio quei passi e quegli episodi dell’opera malapartiana che a me sono sembrati particolarmente inaccettabili, proprio quelli che hanno contribuito a formare il mio giudizio negativo.
Vorrei precisare che io qui non parlo del personaggio Malaparte, che ho conosciuto a Capri fuggevolmente e che, dopo aver letto il saggio di Giordano Bruno Guerri L’arcitaliano (Bompiani), mi è diventato addirittura simpatico per i suoi italianissimi difetti e per un certo lato furbesco e infantile della sua personalità; io qui parlo delle sue opere (che Adelphi si appresta a riproporre) e di quei punti dove si concentra la quintessenza del malapartismo (mistificazione, esibizionismo, sensazionalismo, orribilismo) che Kundera non sembra prendere troppo in considerazione.
Ho cercato di capire la ragione di questa disparità di opinioni, ho pensato all’effetto traduzione che in certi casi avvantaggia l’autore tradotto e in altri casi lo distrugge, rendendo così impossibile stabilire una gerarchia di valori, e ho concluso che Malaparte è traducibile e che forse in traduzione i suoi effettacci diventano più accettabili e raggiungono il bersaglio. L’hanno certo raggiunto con Kundera, ma secondo il mio gusto, se si può far passare il racconto famosissimo dei cavalli congelati nel lago e affioranti con le loro teste dalla superficie ghiacciata, simili a sculture terrificanti (in Kaputt), è molto più difficile accettare (ne La pelle) il racconto degli ebrei crocifissi ai due lati della strada che Malaparte percorre di notte cavalcando, roba spettacolare e truculenta, come nel colossal Spartacus di Stanley Kubrick con Kirk Douglas. Ma almeno i crocifissi di Kubrick agonizzavano muti, quelli di Malaparte inveiscono, lo insultano, lo maledicono, gli sputano in faccia e ridono quando lui dice che è un cristiano: «Un riso stridulo corse nel cielo nero, si perdé lontano nella notte». E poi: «Ah! Ah! Ah!, gridò l’uomo crocifisso (rivolto agli altri crocifissi), avete udito? Vuol toglierci dalla croce e non se ne vergogna! Razza immonda di cristiani, ci torturate, ci inchiodate agli alberi, poi venite a offrirci la vostra pietà! Vorreste salvarvi l’anima, eh? Avete paura dell’inferno! Ah! Ah! Ah!». Insomma ridono, sarcastici ma ridono. Ridono e chiacchierano fino all’inverosimile con inarrestabile loquela.
Ancora più inaccettabile, almeno per il mio gusto, è la storia del cane Febo che l’autore amava «più di una donna, di un fratello, di un amico», e che ritrova crocifisso, col ventre aperto, fili nel fegato, le corde vocali tagliate per impedirgli di abbaiare, in una sala di vivisezione. Febo lo riconosce, gli lancia una muta occhiata («mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi») per chiedergli di ucciderlo. L’episodio dovrebbe essere commovente. Ma la commozione secondo me andrebbe sollecitata in modi meno plateali e brutali, altrimenti si raggiunge l’effetto contrario, e quando si vorrebbe suscitare il pianto si provoca il riso.
Così mi è sembrato risibile (sempre ne La pelle) l’episodio del corpo umano schiacciato da un carro armato: «Era un tappeto di pelle umana, e la trama era una sottile armatura ossea, una ragnatela d’ossa schiacciate. Pareva un vestito inamidato, una pelle d’uomo inamidata... Quando il tappeto di pelle umana fu del tutto staccato dalla polvere della strada, uno lo infilò dalla parte della testa sulla punta della vanga, e con quella bandiera si mosse». Segue un incredibile dialogo che sembra una parodia del dialogo hemingwayano: «Che cosa c’è scritto in quella bandiera?... C’è scritto che quella bandiera è la bandiera della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle... E il vento faceva sventolare la bandiera, muoveva i capelli impiastricciati di sangue...». E qui mi fermo. Ma Malaparte non si ferma mai, ci dà sempre dentro, «ci azzuppa il pane» come si dice a Napoli, per sbalordire, per stupire, per inorridire.
A me questo episodio ha ricordato i cartoni animati dove il gatto Silvestro viene schiacciato allo stesso modo, ma per lo meno subito si riprende e riacquista la sua forma, e tutto è per ridere. Qui invece si fa sul serio, si spaccia tutto come realmente avvenuto, soprattutto per mettersi al centro della scena.
Sarà perché sono napoletano e ce l’ho con lui per come ha usato Napoli, ma si sarà capito ormai che a me questo Malaparte non piace, non mi piace la sua orrificazione della realtà, soprattutto quella della Napoli del 1944 evocata ne La pelle, e non posso fare a meno di ricordare con quanta maggiore pietà e precisione, e un umanissimo sense of humour, quella stessa realtà fu descritta dall’inglese Norman Lewis (in Napoli ”44, Adelphi).
A questo punto devo dire che i fatti orripilanti raccontati da Malaparte non sono inverosimili perché nel nostro mondo di guerre ed eccidi cose del genere non possano accadere. Anzi leggendo ricordiamo meglio che queste cose non solo sono accadute, ma continuano ad accadere. Le cose che racconta Malaparte sono inverosimili perché sembrano false, ed è il modo come sono raccontate a falsificarle. Anche Kafka scrive cose inverosimili, anche Rabelais, anche Cervantes, ma non sembrano false. Ne La pelle pare che lo stesso Malaparte voglia prendere in giro se stesso e lo faccia per mettere in qualche modo le mani avanti e giustificarsi.
Mentre sono tutti a tavola, uno dei commensali, il tenente francese Pierre Lyautey gli dice: «Mi piacerebbe sapere che cosa c’è di vero in tutto quello che raccontate in Kaputt ». Un altro risponde: «Non ha importanza, la questione è un’altra, se quel ch’egli fa è arte o no». Un altro commensale aggiunge ironicamente: « mai possibile che capiti tutto a lui? A me non accade mai nulla». Malaparte ribatte da par suo: «Non bisogna mai burlarsi di un ospite mentre sta mangiando con voi la mano di un uomo». E fa vedere nel piatto i resti della mano che ha mangiato. «Vogliate scusarmi se, nonostante la mia buona educazione, non sono stato capace di mandar giù le unghie». Tutti guardano esterrefatti i resti della mano nel piatto, sì è proprio una mano!
Si scoprirà dopo che è stato un trucco, perché gli ossicini di montone disposti con arte da Malaparte nel piatto sono apparsi come le ossa di una mano. Tutti ci avevano creduto ed erano rimasti inorriditi. Malaparte vuol dire che ciò che conta è disporre con arte le parti di un racconto in modo da dare l’impressione della verità. questo quello che conta, secondo lui. Secondo me qui l’arte non è quella vera, ma è l’arte del prestigiatore, e per di più il trucco nel suo caso si vede.