Peppino Caldarola, Il Giornale 21/04/2009, 21 aprile 2009
Massimo D’Alema ha compiuto sessant’anni. Più di trent’anni fa un anniversario come questo avrebbe meritato almeno due pagine dell’Unità
Massimo D’Alema ha compiuto sessant’anni. Più di trent’anni fa un anniversario come questo avrebbe meritato almeno due pagine dell’Unità. Gli auguri dei militanti illustri, una breve ma intensa biografia, l’intervista a chi lo conosce bene, il racconto della giornata del festeggiato. Così il Pci celebrava i suoi dirigenti più in vista, figurarsi uno che era stato il segretario del Partito e continua ad essere l’uomo più in vista della sinistra. Invece il compleanno di D’Alema ha avuto una celebrazione più discreta. Qualche articolo sui quotidiani, una festa di vecchi amici della Fgci (l’organizzazione giovanile comunista di è cui è stato leader indiscusso), gli auguri di amici e avversari e lui che se ne va per mare alla ricerca del vento. Infatti, mentre il Pd si affloscia su se stesso, lui è da ieri in testa alla regata Roma per tutti. D’Alema è sicuramente l’ultimo leader della sinistra che, pur nella personale anaffettività, ha saputo suscitare passioni forti. I suoi fan lo chiamano familiarmente «Massimo», i più fedeli «presidente», lui chiama tutti ostentatamente per cognome come si usava nelle scuole di una volta e nella vecchia scuola del Pci. Romano, di scuola pisana, scopre le proprie radici meridionali, che con gli anni rivendica con civetteria, dopo che il partito lo invia in Puglia per farsi le ossa (o per spezzargliele, come raccontano alcuni biografi che ricordano la malevola accoglienza del gruppo dirigente pugliese). La storia di questi anni della sinistra ruota attorno a lui. Si racconta che fosse un beniamino di Enrico Berlinguer, sicuramente alla sua morte molti pensarono che il Pci si sarebbe dovuto affidare alle mani inesperte ma decise del giovane dirigente. Toccò invece a Natta e poi ad Achille Occhetto. Durò poco. D’Alema entrò nel cuore del partito quando si decise di scioglierlo. Fu l’unico a dire la verità, a sostenere che si cambiava non per scelta «gioiosa» ma perché i comunisti avevano subito la sconfitta storica. L’analisi fredda e realistica è sempre stata il suo forte. Fu l’unico dirigente della giovane generazione che non si entusiasmò per Mani Pulite anche se qualche anno dopo portò Di Pietro nel Mugello per eleggerlo senatore. Anche il suo approccio al fenomeno Berlusconi fu diverso da quello di altri suoi compagni di partito. Sprezzante nei giudizi (ma lo è con tutti), non partecipò al coro giustizialista contro di lui e da segretario del partito andò in Mediaset definendo l’azienda una risorsa del paese. D’Alema è l’uomo della Bicamerale, il segretario che s’inventò l’Ulivo e la candidatura di Prodi, che lo affossò e incautamente ne prese il posto, che auspicò la svolta socialista dei Ds salvo poi sposare la tesi del partito prodiano ribattezzato partito democratico, è lui che scelse Veltroni alla guida del nuovo partito salvo poi a combatterlo aspramente. Negli anni togliattiani di D’Alema si sarebbe detto che è un totus politicus. La politica e la sua famiglia sono gli amori più grandi della sua vita. Timido fino all’arroganza, consapevole di sé fino all’abbaglio autocelebrativo, riesce a toccare le corde della sinistra perché la sinistra assomiglia a lui. A D’Alema sono riuscite le operazioni impossibili ed è franato su quelle semplici. stato il premier della difficile scelta della guerra nel Kosovo, l’uomo che ha introdotto tracce di liberismo in una cultura tradizionalmente statalista, che ha creduto nella pacificazione fra i due poli. Ma è stato anche l’uomo delle sconfitte più brucianti, quello che viene insistentemente diffamato per la sua passione ad intervenire nelle grandi giostre dell’economia. Ha il vento in poppa nei momenti dei disastri, non sa guidare la barca quando la navigazione diventa tranquilla. Ora che si avvicina un nuovo grande disastro molti si rivolgono nuovamente a lui. Forse non è più comunista, ma della vecchia scuola comunista ha la fibra forte. terribile averlo nemico, è quasi impossibile averlo amico. In tutti questi anni mi sono imbattuto molte volte in lui, talvolta affiancandolo, talaltra avversandolo. Ho (ovviamente) sempre perso io, anche quando (il più delle volte) avevo ragione. Spesso sono stato indicato erroneamente come un suo portavoce. In trent’anni di conoscenza abbiamo cenato assieme tre-quattro volte e ci siamo scambiati una decina di telefonate personali. Eppure mi sembra di conoscerlo come un amico, perché anche io vedo in lui tracce di un mondo che non c’è più e il disperato desiderio di sopravvivenza della sinistra. Il dalemismo come corrente politica è morto da tempo, resta un sentimento.