Vittorio Sgarbi, Panorama, 23 aprile 2009, 23 aprile 2009
VITTORIO SGARBI PER PANORAMA 23 APRILE 2009
Viaggio (critico) nell’arte da salvare. Facciate di chiese antiche, palazzi centenari, absidi, statue, dipinti, piazze… Restauri e recuperi dovranno seguire un solo principio: come era e dove era. Parola di esperto.
’Aprile è il più crudele dei mesi”: Attraversando la provincia dell’Aquila, in queste giornate luminose di primavera, fra spettrali rovine di chiese, di interi borghi, di edifici rurali, mi tornano alla mente i versi terribili e profetici di T.S.Eliot, il folgorante inizio di The waste land, la terro desolata, appunto. Come oggi appare l’Abruzzo.
Ho iniziato la via crucis da Paganica, accompagnato dagli sguardi amici dei cittadini, dei vigili del fuoco, dei carabinieri, festosi per avere recuperato la bellissima madonna (senza il bambino) cinquecentesca della scuola di Silvestro dell’Aquila e le due sculture di San Giustino e del Cristo in pietà, che per due giorni porteranno in processione. Entro nella chiesa dell’Immacolata, a pianta centrale, con la curva facciata barocca staccata dal corpo dell’edificio; vedo il disastro degli altari abbattuti. I volti, in apprensione, chiedono parole di conforto sulle opere recuperate e rassicurazioni sui futuri restauri architettonici.
Nessun dubbio che questo centro debba essere risarcito. E sembra una beffa che il bel palazzo della delegazione municipale, che si affaccia su una piazza che sembra un quartiere di Parigi, sia appena stato restaurato e attendesse di essere inaugurato il martedì dopo Pasqua: la struttura ha resistito, ma sono crollati stucchi e cadute statue dai piedistalli nelle nicchie.
Il restauro dovrà riprendere. Inizia di qui la richiesta unanime di tornare nelle case; e crescerà nel coro di sindaci dei piccoli borghi, colpiti quasi in ogni edificio, quando non distrutti, come Onna (anche qui verrò portato in un deposito prezioso dove, fra tele settecentesche, in particolare un bel vescovo di scuola napoletana del Settecento, apparirà un’altra nobilissima Madonna con il Bambino, scultura lignea cinquecentesca, policroma e dorata, di cui la festa ricorre la seconda domenica di maggio; ed è ora indiscussa patrona del campo). Decido allora di non entrare nella vicina L’Aquila, ma di batterli a uno a uno, convinto che la ricostruzione degli edifici monumentali nel centro storico del capoluogo non comporterà problemi.
Non temo per Santa Maria di Collemaggio, emblema e simbolo, come già lo fu in passato, per i cattivi restauri che la ”debarocchizzarono” con l’obiettivo di restituirla a una purezza architettonica frigida e innaturale. La vedevamo nella foggia che assunse agli inizi degli anni Settanta: non sarà difficile riportarla a quella condizione. In questi giorni abbiamo visto che, dalla Porta della Perdonanza, a cielo aperto, sono stati recuperati dipinti, sculture e la preziosa reliquia di Celestino V.
Molta è stata l’apprensione per questi salvataggi fra i muri pericolanti. Ma sono certo che, tra qualche anno, come Santa Maria di Collemaggio ritroveremo, restituite alla loro integrità, San Bernardino, Santa Maria di Paganica, San Domenico, chiese oggi ferite, come le due della piazza, il Duomo (più volte rimaneggiato fino a vedere conclusa la facciata nel 1928) e Santa Maria del Suffragio, detta delle Anime sante, con la bella cupola, oggi frantumata, su disegno di Giuseppe Valadier. Impressionante è stato vederla sfarinarsi in diretta, attraverso un filmato durante la serie di scosse della seconda giornata. Tutto tornerà come prima, e il puro disegno dell’architettura sarà fedelmente riprodotto in una nuova e più resistente tessitura muraria, come è di recente avvenuto alla Cattedrale di Noto, rassicurante precedente per queste imprese di restauro, secondo il principio ”come era e dove era”.
Dopo il sopralluogo a Santa Maria di Collemaggio e il percorso di guerra tra rovine di edifici, condomini, scuole, caserme, ospedali, uffici pubblici, di recente costruzione e puntuale distruzione, esco dall’Aquila sfiorando, lungo le mura parzialmente abbattute, Porta Rivera: il sagrato è polveroso per i detriti della bella e semplice Chiesa di San Vito del XIII secolo, ma, di fronte, la bella corte seminterrata della Fontana delle 99 cannelle, simbolo laico della città, è miracolosamente intatta. Così viaggio in affanno verso quello che forse vedrò per l’ultima volta, verso ciò che forse è perduto per sempre.
Penso alle pievi remote e all’edilizia minore, soprattutto rurale. Penso che, se lesionate, quelle povere architetture verranno implacabilmente abbattute per lasciare spazio a condomini in cemento armato; e penso, allora, che il genio civile e le soprintendenze dovranno procedere a un salto culturale per il quale è essenziale un’alta indicazione politica, e ”spirituale”, del governo, del presidente del Consiglio e del ministro dei Beni culturali.
I piccoli centri che visito, dopo Onna: Villa Sant’Angelo, Sant’Eusanio, Casentino, Fossa, San Demetrio de’ Vestini. Devono essere intesi come beni culturali, nella loro organica unità urbana. Ogni paese deve essere considerato come un monumento, senza rubricarlo nei caratteri dell’edilizia minore. E deve essere quindi pazientemente ricucito attraverso il consolidamento degli edifici, nelle forme, nelle cubature e nei materiali originali.
Ogni sindaco conviene con questi principi di restauro che coincidono con le esigenze, profonde e semplici, della popolazione, che non vuole quartieri nuovi, anonime periferie urbane, satelliti costruiti a qualche chilometro dai siti devastati, inevitabilmente destinati a morire o a trasformarsi in ruderi e rovine.
Il destino ha voluto che vi sia un modello per questi piccoli centri, talvolta di miracolosa conservazione, come Casentino o Sant’Eusanio. Un modello di restauro integrale e di prevenzione imprevista: Santo Stefano di Sessanio. Qui, da circa 10 anni, osservatori, studiosi e giornalisti italiani e stranieri gridano al miracolo di un ripristino di decine di case abbandonate, senza coperture e in condizioni non diverse da quelle dei luoghi oggi terremotati.
Un giovane e audace investitore di orgine danese, Daniele Kihlgren, e l’architetto abruzzese Lelio Oriano Di Zio hanno dato una prova e un esempio formidabile inducendo, in quell’area del versante meridionale del Gran Sasso in prossimità di Rocca Calascio, gli amministratori a pretendere vincoli di inedificabilità, difendendo il costruito storico e sottoponendolo a ripristino e consolidamento. Oggi, dopo il terremoto, Kihlgren mi propone di procedere, nelle opere di sgombero delle macerie, a un’avveduta raccolta differenziata di materiale di recupero, dalla pietre scolpite, e cornici e mensole, ai legni poveri, ma secolari e ancora sani, dei solai, come di porte, portoni, finestre.
Continuo il calvario, e vedo la facciata sgretolata di Villa Sant’Angelo; l’abside lacerata di Casentino, piccolo paese che si inerpica sulla collina; la bella piazza di Sant’Eusanio con il rosone della chiesa spezzato e i palazzi slabbrati. Registro che hanno resistito le chiese e gli affreschi di Bominaco, capolavori dell’arte romanica, e di Tornimparte, dove ha lavorato uno dei maestri del Rinascimento nell’Italia centrale, Saturnino Gatti. Ma osservo con tristezza la rovina di una delle più belle facciate d’Abruzzo, quella della Chiesa di Santa Giusta di Bazzano, borgo che vede a rischio anche edifici lesionati del Quattrocento e del Cinquecento. Ma i danni più gravi sono nella Chiesa di Santa Maria ad criptas di Fossa, con vistose cadute di intonaco dipinto nell’angolo tra la controfacciata e la parete laterale.
Una situazione altrettanto grave è nella Chiesa di Santa Lucia nella più remota e più alta località dell’Aquilano, Rocca di Cambio. Qui sono caduti affreschi, dalla parete di destra e da quella di fondo, con la perdita di un intero riquadro. Danneggiata è l’eccezionale Ultima cena, con le belle e primitive nature morte e con i principali protagonisti, il Cristo e San Giovanni evangelista, nell’angolo a sinistra, non al centro.
Il meraviglioso paesaggio, contaminato da una brutta cava di pietra e da tristi edifici condominiali sul crinale del monte, non consola della perdita di dipinti così preziosi entro questa chiesa che sembra planata sull’altopiano. Il territorio aquilano è disseminato di crolli di edifici rurali e di piccole pievi ovunque distribuiti, ma in un’area definita, che si estende da Assergi fino a Rocca di Mezzo, una fascia lunga e stretta, ben delimitata.
In quell’area occorrerà intervenire, con rigore e rispetto, e intensivamente, evitando che ai benefici derivati dal terremoto, per restauri e ricostruzioni, si candidi tutto l’Abruzzo che ha risentito del terremoto con danni episodici o marginali, da Alba Adriatica alla Maiella, da Teramo a Vasto, da Roseto a Trasacco.
I danni potranno essere denunciati e riparati, senza arrivare ad assoggettare al terremoto 150 località toccate o sfiorate, come si è visto in una mappa del rischio pubblicata sul quotidiano Il Centro. Si limiti la ricostruzione, attenta e paziente, all’Aquila e ai suoi dintorni; e fra cinque anni il terremoto sarà soltanto un cattivo ricordo, che avrà prodotto interventi giudiziosi. Per non farci trovare, un’altra volta, impreparati e disarmati.