La stampa 20/4/2009, 20 aprile 2009
A COSA SERVE QUANTO CI COSTA
Si torna alla casella di partenza, la data più probabile del referendum torna a essere quella che indicava il ministro Maroni mesi fa, cioè il 14 giugno. Non il 7, insieme con le Amministrative e le Europee, perché il governo ha lasciato scadere i termini. Ma a quanto pare nemmeno il 21, data che Berlusconi preferisce in virtù dell’abbinamento con i ballottaggi nelle Province e nei Comuni (ci sarebbe un mini-risparmio sulle spese dei seggi). L’obiezione stavolta viene dal Colle: per votare oltre il 15 giugno occorre cambiare la legge. Però si tratta di materia elettorale, molto delicata. Non sarebbe corretto intervenire con un decreto, come vorrebbe il Cavaliere. Bisogna seguire la procedura standard, disegno di legge all’esame del Parlamento nel più breve tempo possibile. E incrociare le dita, in quanto coi tempi di Camera e Senato non si può mai sapere...
Serio dunque è il rischio di non fare in tempo. Realisticamente non rimane che il 14 giugno. Cioè l’ennesima vittoria della Lega. Lo stesso Guzzetta, presidente del Comitato promotore, scommette che lì si andrà a parare. Quanto all’ipotesi di rinvio tra un anno, caldeggiata dal ministro La Russa e dagli ex radicali del Pdl, verrà decisa eventualmente più in là, solo se ci sarà un vasto consenso. Ma non pare aria. Volano querele e insulti. Il ministro Calderoli vuole trascinare i referendari in giudizio, Guzzetta lo attende a piè fermo, «non è la prima volta che mi minaccia, gli sono saltati i nervi». Zuffa furiosa sui costi, centrodestra scatenato contro il segretario Pd Franceschini che insiste a denunciare 400 milioni di «assurdo» sperpero per il mancato abbinamento all’«election day» (6-7 giugno). «E’ sciacallaggio», grida il capogruppo dei senatori Pdl Gasparri. Franceschini «ha perso ogni credibilità», rincara il leghista Castelli. Se la gode il Cavaliere, l’idillio tra il Carroccio e il Pd, che lo angustiava dai tempi di Veltroni, è acqua passata.
Tremonti ammette che lo Stato avrà una spesa in più, ma «questo costo è a carico dei signori che hanno voluto il referendum, non si può risparmiare violando la legge». L’«election day» è vietato da 40 anni di «saggia prassi», secondo il titolare dell’Economia. Si stupisce Guzzetta per le dichiarazioni «da ignorante». Passi da Maroni, osserva caustico, ma da Tremonti chi l’avrebbe immaginato?/
Come mai il referendum appassiona tanto i politici?
E’ sempre così quando si tocca la legge elettorale: una sola virgola spostata può inghiottire interi partiti. Dinamite pura. La sola prospettiva che questo referendum si tenesse, quattordici mesi fa, fu sufficiente a far cadere Prodi (Mastella si dimise anche per questo). E stavolta, giura Berlusconi, siamo stati prossimi alla crisi per mano della Lega.
Quanti sono i quesiti?
Tre. Però i primi due mirano allo stesso traguardo della semplificazione politica, in pratica un’unica domanda. La terza punta a vietare le candidature multiple. Oggi un leader può presentarsi in più circoscrizioni e risultare eletto in luoghi diversi, salvo optare poi. Il risultato è che così decide chi far scattare tra i primi dei non eletti. I promotori del referendum lo giudicano uno sconcio. Gli altri, un dettaglio.
A che cosa si riferiscono i quesiti della discordia?
Che il premio di maggioranza non venga più attribuito alla coalizione vincente (nell’ultimo caso Pdl più Lega e MpA). Propongono di cancellare la parola coalizione e di attribuire il «premio» a un unico partito: quello che otterrà la percentuale migliore. Per assurdo, col 25 per cento dei voti potrà conquistare il 55 per cento dei seggi alla Camera (oppure la maggioranza su base regionale al Senato). Tutti gli altri si divideranno il rimanente 45 per cento.
E’ vero che i partitini verrebbero fatti fuori?
Sì e no. Per i «nanetti», condanna garantita. Dovranno bussare con il cappello in mano alla porta dei fratelli maggiori. Troveranno accoglienza solo rinunciando a nome e simbolo. Sorte migliore per i partiti in grado di superare lo sbarramento (4 per cento alla Camera, 8 per cento al Senato): eleggeranno la loro quota di deputati e senatori, che significano diritto di tribuna e finanziamenti pubblici. Alle passate elezioni l’Udc realizzò l’impresa. Secondo i pronostici, oggi la sfangherebbero pure Lega e Idv.
La Lega, dunque, sopravviverebbe. Ma allora, come mai spara contro il referendum?
Perché non conterebbe più nulla. A contendersi il «premio» per governare l’Italia sarebbero Pd e Pdl. Il famoso bipartitismo. E vista l’aria che tira, se tornasse domani alle urne Berlusconi potrebbe conquistare la maggioranza da solo, dando un calcione a Bossi.
Che senso ha litigare sulle date e sull’abbinamento con Europee e amministrative?
Votare una domenica anziché l’altra, in abbinamento con amministrative ed Europee può far raggiungere il quorum (metà degli elettori, più uno) oppure no. Niente quorum, referendum fallito. E’ dal 1995 che l’ostacolo non viene superato. Gli ultimi tentativi hanno registrato un’affluenza del 25%.
Gli avversari del referendum puntano sull’astensione. Non potrebbero battersi per il no?
Fanno un calcolo machiavellico. Mandare la gente al mare è più facile che convogliarla ai seggi. L’astensionismo consapevole si aggiunge a quello, fisiologico, di chi non può andare alle urne, o non gli interessa.
Abbinato all’«election day», il referendum avrebbe avuto più chances?
Certamente sì. Il 6-7 giugno gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi per il Parlamento Ue e, in molti luoghi, per le amministrative. Se il referendum si agganciasse a questo «trenino», non faticherebbe a raggiungere il quorum.
vero che il mancato abbinamento sottrae 400 milioni di euro ai terremotati?
Le spese certe dello Stato oscillano tra 170 e 200 milioni di euro. La cifra di 400 si ottiene (vedi www.lavoce.info) solo se si aggiungono i costi indiretti dei cittadini: ore di riposo perse, benzina per andare in macchina ai seggi, babysitter per badare nel frattempo ai figli piccoli, e via così.
Quanto si risparmia votando il 21 giugno?
Dipende dal numero di province che arriveranno al ballottaggio. In teoria potrebbero essere 60, a giudicare dai sondaggi saranno una ventina. In questo caso, 50 i milioni salvati. Per gli altri 120-150 milioni di spese vive, nulla da fare.
La Lega dice che è la Costituzione a vietare il referendum nell’«election day»...
Prova ne è, secondo loro, che in 40 anni non si sono mai abbinati referendum ed elezioni generali. Sciocchezze, replicano i promotori Guzzetta e Segni, che citano un paio di precedenti di segno opposto e il parere di presidenti emeriti della Consulta. Comunque il problema è ormai alle spalle: il governo ha già lasciato scadere i termini per votare il 7 giugno. Restano il 14 e il 21. Più l’ipotesi (che al momento non attecchisce) del rinvio di un anno.
Mettiamo che non si raggiunga il quorum. A quel punto che succede?
Ci teniamo il sistema elettorale attuale, meglio noto come «Porcellum». Rendendo inutili le 820 mila firme raccolte dai promotori. Vittoria della Lega, soddisfazione dei centristi Udc, sollievo di parte del Pd. E rimpianto del Cavaliere, che grazie al referendum poteva governare da solo. Ma ha perso l’attimo.
La Lega innanzitutto, che con la legge che deriverebbe dall’approvazione del referendum sarebbe obbligata a confluire nel Pdl pena l’irrilevanza politica.
Lo stesso discorso fatto per la Lega si può fare per altri partiti che stanno sotto il dieci per cento come Italia dei Valori e Udc. Casini ha detto espressamente che questo referendum «che pur va fatto, è un imbroglio».
Per i piccoli partiti la questione non cambia. Il referendum non tocca la soglia di sbarramento fissata con l’attuale legge elettorale al 4 per cento. La soglia resterebbe in vigore anche se passasse il sì.Berlusconi ha annunciato che voterà al referendum anche se non ha detto come. Facile pensare che sia favorevole ai quesiti perchè il suo Pdl potrebbe ottenere la maggioranza assoluta senza bisogno di coalizzarsi. Non lo può dire apertamente per ragioni di coalizione.
Fini è stato tra i primi firmatari e vede di buon occhio la consultazione.
Anche nell’altro grande partito, il Partito democratico, l’opinione prevalente è per il sì ai tre quesiti. Il segretario Dario Franceschini ha denunciato il fatto di non aver scelto di votare il 7 giugno come un pedaggio alla Lega, una vera e propria «Bossi-Tax».