Fabrizio Rondolino, La stampa 20/4/2009, 20 aprile 2009
UN LEADER MAXIMO SENZA PARTITO
Massimo D’Alema è l’ultimo hegeliano in un mondo politico new age attraversato e divelto dal peggior irrazionalismo. La sua proverbiale arroganza, l’insofferenza per la superficialità, l’antipatia per il giornalismo dei retroscena che ignora la scena, scaturiscono dalla convinzione che il reale sia complesso e articolato, e richieda uno sforzo della ragione per poter essere afferrato e compreso; e che sia precisamente in questo sforzo - in questa «fatica del concetto» - che la ragione percorre il cammino inverso tornando nella realtà, e dunque diventando prassi, azione, trasformazione. Maneggiare la complessità con gli strumenti della ragione è il lavoro di D’Alema, la sua cifra e il suo maggior limite, nonché la causa principale tanto del disprezzo quanto dell’ammirazione che il personaggio è capace di suscitare in misura assai maggiore del potere reale di cui dispone (D’Alema compie sessant’anni senza incarichi di partito, né parlamentari, né sovrannazionali: è, tecnicamente, un peone).
Il comunista italiano che è diventato presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, e che potrebbe un giorno diventare presidente della Repubblica, è un uomo decisamente complesso, la cui passione per la politica è soltanto una forma - la predominante, la pubblica - di una passione intellettuale e sentimentale per la natura e l’intelletto umani.
Come ogni intellettuale, D’Alema riserva alla sfera dell’interiorità le passioni più violente e le confessioni più intime; ed è proprio la ricchezza interiore, non l’indubbio professionismo, a dare al personaggio quella «marcia in più» che sovente sorprende. Il rapporto fra D’Alema e il mare, per esempio, è un rapporto sentimentale e privato - e dunque, nel mondo d’oggi, appare sgradevolmente aristocratico. D’Alema non va in barca per ricevere gli amici, fare affari o abbronzarsi: ci va perché il telefonino non prende. Il mare di D’Alema è il silenzio della bonaccia e il fischio rauco del vento, l’orizzonte aperto e la solitudine, la violenza indifferente della tempesta e il volo radente dei gabbiani.
Nella vita di D’Alema le donne hanno una centralità assoluta e indiscussa. Dalla nonna paterna, maestra elementare (pare) di grande severità e rigore, alla madre, presto soprannominata dai figli «il Generale»; dalla moglie Linda Giuva alla figlia Giulia, che si dice abbia il padre sotto assoluto controllo: le donne di D’Alema non sono soltanto donne intelligenti, o indipendenti, o con una vita lavorativa propria: esprimono prima di tutto un principio di autorità, di coesione e di sicurezza al cui interno si costruisce lo spazio della famiglia - che per D’Alema, in questo assai meridionale, è comunità indistruttibile e sacrario inviolabile.
C’è dunque un forte elemento femminile, che per dir così controbilancia il «maschilismo» della tradizione comunista. E forse è per questo che D’Alema è da sempre incuriosito dal pensiero taoista, il cui cuore è una concezione non-dualistica (e dunque intimamente complessa, non lineare, interdipendente) della realtà. Sun Tzu, secondo cui «sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità», insegna nella sua Arte della guerra come al centro della strategia ci sia il posizionamento. L’abilità consiste nel trovare il luogo e il tempo giusto in cui collocarsi; poi, accada quel che deve accadere.
in questa cornice, ancorché simbolica e un poco immaginifica, che va collocato il problema del potere. D’Alema ne ha una visione, di nuovo, fortemente intellettuale. L’istinto combattente del giovane campione di Risiko! che ascende rapidamente nella nomenklatura del Pci si è stemperato nel corso degli anni in una qualche forma di rassegnazione. Difficilmente oggi D’Alema si farebbe rimproverare da Berlinguer, come gli accadde quando, in coppia con Andreotti, sistematicamente batteva a scopone scientifico l’allora presidente Pertini durante il volo che portava i quattro ai funerali di Andropov.
Oggi D’Alema probabilmente lascerebbe vincere il presidente. Il potere infatti è forma, simbolo da esibire, rito da officiare: non è mai esibizione; è auctoritas (o, gramscianamente, egemonia), e non imposizione o rapina; in fin dei conti, non è neppure vittoria o sconfitta. Bisogna tener presente un dettaglio fondamentale: il giovanissimo pioniere che Togliatti, secondo un aneddoto mai confermato, avrebbe definito per la tanta sapienza «un nano, non un bambino», si è poi ritrovato a giocare la sua partita in un campo da gioco sconvolto dal crollo del Muro e dal terremoto di Tangentopoli. Figlio del partito, D’Alema diventa adulto mentre i partiti si sbriciolano.
Naturalmente, molto spesso la realtà si discosta dai suoi modelli teorici, tanto più se raffinati, e dunque a D’Alema è capitato spesso di passare per (o di essere effettivamente) il guastatore, il giocatore d’azzardo, o il «mercante fenicio» (come una volta lo definì l’Avvocato, che per altro lo stimava non poco). Gli avversari sostengono che sia più bravo a distruggere che a costruire, ma si potrebbe obiettare che il primo Ulivo - l’unico che vinse abbastanza da governare per cinque anni - fu opera sua, dal pranzo a Gallipoli con Buttiglione fino alla «creazione» di Prodi insieme a Beniamino Andreatta.
Più vera è invece una certa ingenuità - ne ha parlato qualche volta la madre, nelle poche interviste che era costretta a rilasciare -, che a volte rasenta la sprovvedutezza. Del resto, D’Alema sembra evitare con accanita meticolosità ogni tentativo di rendersi simpatico; o meglio, il piacere di una battuta tagliente, di un guizzo dialettico, di un repentino sfoggio d’intelligenza spesso vanificano le sue più brillanti strategie. Ad una giornalista che gli chiedeva: «Posso farle una domanda?», D’Alema un giorno rispose: «L’ha già fatta». Buon compleanno, presidente.