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 2009  aprile 20 Lunedì calendario

LA SERA ANDAVAMO DIETRO ALLE FEMMINE


BRANI TRATTI DA SUD - UN VIAGGIO CIVILE E SENTIMENTALE (MONDADORI 2009) DI MARCELLO VENEZIANI

Corteggiare una ragazza si traduceva al Sud con l’espressione «andare dietro». Quello mi viene dietro, diceva orgogliosa e infastidita la minenna... Andare dietro non era una metafora, ma un’attività reale, un pedinamento quotidiano, insistente. Interi pomeriggi e sere passati ad andare dietro alle femmine, emettendo fischi di richiamo. C’era chi si accontentava di questa attività senza arrivare a una conclusione, esaurendo l’orgasmo nell’inseguimento, scambiando l’andar dietro con il possedere. C’erano Casanova immaginari che vantavano decine di vittime mai sfiorate, solo inseguite. Le facevano perdere solo la verginità stradale. I più mondani si vantavano di pregresse intimità, dicendo: «Quella la tengo ballata».
Andare dietro alle ragazze, dette «piccioni», si divideva in due attività simili alla caccia: da passeggio e da appostamento. La prima coincideva con lo struscio o il salescinne, che al mio paese era diviso in gironi distinti intorno alla piazza: studenti liceali e universitari, studenti tecnico professionali, lavoratori e sartine. Se saltavi da un girone all’altro eri guardato male, come un invasore: una volta passammo dal primo al terzo girone dello struscio, e una sartina ci bollò: «Tutti locchi i studendi». L’itagliese, lingua mista di italiano e pugliese, era il linguaggio per comunicare tra sessi e ceti diversi.
L’appostamento, invece, era personalizzato; la seguivi da casa in chiesa o dalla maestra di tombolo, a casa della nonna o dell’amica. E magari aspettavi per ore che scendesse. A volte l’inseguimento, alimentato solo da sguardi, rallentamenti, vaghe allusioni, veniva coronato. Oggi l’ho fermata, dicevi agli amici con orgoglio sessuale da polizia stradale. Magari la prima volta per chiederle con voce innaturale «scusi, che ore sono?» davanti all’orologio della piazza o esibendo un vistoso orologio al polso; i più arditi la chiamavano per nome, la abbordavano con una spiritosaggine. Se rideva voleva dire che ci stava; ma se non rideva voleva dire che faceva finta o era una ragazza seria, non dà confidenza o si tira la calzetta. Dunque, inzistisci, almeno fino a che lei non ti fa la parte, o non ti vengono a minacciare zii e fratelli. [...]
«Le mani a posto», «Levi le mani da ”ngodd» (d’addosso) erano le formule di dissuasione o di semplice negoziazione recitate dalle ragazze davanti agli approcci del ragazzo, fino allo schiaffo e all’accusa di «porco» se lui aveva messo le mani nei luoghi sacri, aveva tentato di baciare con la lingua o addirittura «se lo era uscito». I più intraprendenti erano bollati dalle femmine come ciambe lounghe (mani lunghe), rattusi, ciucce ameruse (ciucci amorosi). I guardoni erano classificati come raschiatori.
Le fasi dell’amore erano tre: inseguimento, acchiappo e fidanzamento, andandosi a costituire al parentado. Una resa bilaterale, lei a lui, lui a loro (i famigliari di lei). Chi saltava la terza fase doveva il più delle volte predisporsi al girone di ritorno, l’inseguimento da parte del parentado.
L’innamoramento aveva tre sbocchi: ascinnuta, scombinata, inzirata; ovvero nel primo caso si contempla la zita compromessa (verginità perduta o gravidanza prematrimoniale); nel secondo si contempla il fidanzamento saltato per disaccordo su dote, procedure, festa di nozze, mestiere dello sposo, ruolo delle famiglie, corna fatte da lei (quelle fatte da lui il più delle volte erano considerate un segno di buona salute o al più passibili di una crepanza di mazzate da parte dello zio della sposa, perché c’era sempre uno zio giustiziere ed energumeno in famiglia); nel terzo, invece, si contempla la capitolazione nuziale dell’ostaggio.
In tutti i casi l’amore diventava un caso di contabilità, sia per misurare la dote o apprezzare il corredo con visita guidata (mia zia aveva un corredo di «panna cento», un record; ma non si sposò), sia per la restituzione dei regali in caso di matrimonio scombinato. A volte ci si rendevano perfino le scatole vuote dei cioccolatini e si divideva in due la foto insieme davanti al monumento dei caduti o al mare. [...]
I fidanzati erano oggetto di pubblica derisione: il loro reciproco innamoramento suscitava la iosa dei ragazzini «jò jò a frecò» era il coro ditirambico per svelare la fornicazione) e l’ironia dei vecchi che avevano esperienza del mondo (ha perso la capa, «cur nan capisce chiù neinde»). Il fidanzamento - il foglio rosa dell’amore prima di prendere la patente nuziale - serviva a neutralizzare il ragazzo, addomesticarlo e castrarlo, e sfogare l’arrapamento nell’ingozzamento, sublimando l’eros nel pasto. Ore trascorse in visita alla nonna o sotto la vigilanza di odiosi fratelli piccoli nel ruolo di spie e bracciali elettronici; cani volpini che si lanciavano ad altezza di brachetta se ti avvicinavi alla padroncina (quanti calci nei denti alla bestia, quando i padroni di casa non vedevano); vani tentativi di amplessi negli angoli bui di casa, mani che si allungavano davanti al braciere o alla tv, abbozzi di fughe in cantina o sotto il portone. Le generazioni più attrezzate andavano a fermarsi con la macchina. Da noi il più affollato luogo della dolce vita era dietro il cimitero, dove c’era una densità di coppie parcheggiate pari a una per metro quadro, quasi come nei loculi adiacenti. La privacy era garantita spontaneamente dal vetro appannato; e violata da pessimi ammortizzatori o qualche chiassosa resistenza per le new entry. La lucina accesa nell’abitacolo indicava la fase della ricomposizione, il ritorno alla civiltà; la partenza rapida con sgommata indicava che l’amplesso era finito male o che era tardi e quando lei arrivava a casa erano mazzate («A chess’ore se ven’, addò si stat’ fing a’ mò?», a quest’ora si viene, dove sei stata finora?).
Il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio comportava una trasformazione antropologica: l’innamorato è magro, occhi scavati, teso in ogni parte del corpo, insonne ma sognante, fuori dal mondo; il fidanzato è stucchevole, occhi ebeti e maniere dolci, conciliato con il mondo ma isolato dall’umanità e completamente disossato; lo sposato ha la pappagorgia e la panza, dormiente ma non sognante, schiacciato dal mondo, tiranno e succube della Casa, mentalmente castrato. Il passaggio dall’innamoramento al matrimonio è il passaggio da una leggerezza al peso, che si poteva anche misurare in chili.
Il vero San Valentino era il giorno in cui i parenti dello sposo erano trascinati a conoscere la sposa e i suoi famigliari. Il fidanzato era paonazzo, con la camicia bianca, in stato di coma amoroso tribale, portato come un prigioniero ed esibito come un bottino di guerra dalla zita, che era su di giri, tutta impizzata, profumata in modo esagerato da causare la nausea al fratellino, con l’aria della santarella profanata. I genitori di lui erano diffidenti, soprattutto la mamma per averle depredato quella gioia di figlio, «non perché è figlio mio, ma è davvero un giovane a posto»; i genitori di lei erano compiaciuti per aver piazzato la femmina ma ugualmente diffidenti sul ragazzo e sulla famiglia. Si scrutavano in cagnesco e si valutavano a vicenda, e solo l’opera negoziale di mediatori, zii diplomatici, cugine presentabili, compari comuni e sensali di professione, riusciva a sciogliere la tensione e a permettere di entrare nei discorsi scabrosi mentre passavano il rosolio e i complimendi (i dolci). Commara, favorite.
Il rischio di una colluttazione tra i parenti più rustici era alto, magari dopo il rinserrarsi nel «chi siamo noi e chi siete voi», «che portate voi, che portiamo noi». E il reciproco vantarsi dei rispettivi figli rischiava di innescare battutine e gaffe dagli esiti pericolosi. A metà serata, la mamma di lui sparava l’anello per la sposa e i genitori di lei «uscivano dal tiretto» l’orologio per lo sposo, in memoria di quel giorno galeotto, quando lui le chiese l’ora e cominciò la tresca.
Ora, con l’orologio messogli dalla zita al polso come una manetta, davanti a testimoni e carcerieri, non può più sfuggire. Eppure lui quel giorno che «la fermò» le aveva chiesto l’ora, mica l’eternità.

Clemente Mastella e Tonino Di Pietro sono i dioscuri del profondo Sud, quello dell’entroterra, che va dalla Campania interiore al Molise citeriore. Vegliano ai confini estremi di questo territorio dimenticato da Dio, come Fra’ Diavolo e i Guardiani della soglia. Sono loro i Romolo e Remo dell’Interno Sud, fratelli coltelli a volte con ruoli invertiti. Non parlo tanto di due politici bensì di due tipi umani che incarnano alla perfezione la doppia anima brigante e brigadiera del profondo Sud. Ma di un brigante popolare e in tondo utile alla sua cittadella; e di un brigadiere a volte accusato di violare le leggi, i diritti e i poteri, passando dal giudiziario al legislativo fino all’esecutivo. I loro ruoli ricordano un vecchio gioco dei bambini meridionali, Mago o Libero, acchiappatori o acchiappati.
Confesso di nutrire simpatia verso Mastella e fino a ieri pensavo che fosse solo istintiva, etnica, biologica e ludica, ma non politica, tantomeno culturale. Il primo turbamento mi giunse quando appresi che Mastella era laureato in filosofia; pensai a una mascalzonata dei giornali, a uno scherzo perfido, ma col tempo ci ho creduto davvero. Poi ho considerato Mastella un vero filosofo che ha preso il mondo e la politica con vera filosofia; una filosofia che qualcuno chiamerà «paraculismo», ma è una corrente di pensiero seria e tutt’altro che banale; è la versione secolarizzata e pragmatica del pensiero meridiano e orientale che appartiene a noi del profondo Sud da qualche millennio. Una filosofia che lui ha adattato alla militanza democristiana ma che è precristiana, forse preumana. Poi col tempo la simpatia per lui è cresciuta e ora che è caduto in disgrazia è totale; mi piace persino rievocare la sigla cacofonica del suo partito, l’Udeur, che fino a ieri consideravo una specie di grugnito di cinghiale sannita o una parola d’ordine ammiccante per alludere a misteriosi intrecci, una specie di chiave d’accesso per entrare nel regno segreto di Clemente. Una sigla che andava pronunciata con una mimica allusiva, facendo l’occhiolino e ruotando la mano mentre si compone sulle labbra la parola Udeur, come Totò quando pronunciava con aria complice «birra e salsiccia». Una specie di Croce rossa per compensare le bizze minacciose della Lega. In caso di emergenza rompere il vetro; là nella teca, come il martello e la Madonna, c’è lui, il serafico san Clemente da Ceppaloni, Salvatore dei governi in difficoltà, patrono delle svolte più spinose, come l’indulto, potente bossicida in grado di compensare le crisi nordiste.
Mastella è una frontiera fatta persona, il punto di passaggio tra il centro destra e il centro sinistra, la sottile dogana del bipolarismo, il vero simbolo del Terzismo nazionale. passato alla storia, anche se vi ostinate a condannarlo alla geografia, perché grazie a lui l’Italia ha avuto per la prima volta un premier venuto dal comunismo, D’Alema; dove non riuscirono Gorbaciov, il muro di Berlino, il compromesso storico, e altri eventi epocali, vi riuscì Mastella. Così nacque il primo governo di Falce e Mastella.
Lo offendono quando lo definiscono un leghista del Sud, perché Mastella usa metodi e linguaggi più felpati, è più ragionevole, con lui ci si può mettere d’accordo in modo più concreto. Non sogna guerre di secessione ma solo piccole insorgenze finalizzate ad amorosi inciuci; non traffica in ampolle del fiume Calore, l’equivalente beneventano del Po, nella piccola Padania dei sanniti di cui Mastella è stato a lungo l’imam riconosciuto e venerato. Mastella ha l’occhio inquietante di Saddam ma ha la voce sussurrante di Geggè e i Confidenziali: lui però è sannita, mica sunnita, nonostante l’aspetto sultanesco e la sua Mecca a Ceppaloni. [...]
A prima vista, Tonino Di Pietro sembra l’autista di un ministro. Ma poi a sentirlo parlare ti accorgi che lo avevi sopravvalutato. Il trattore sembra il mezzo più adeguato per lui per muoversi sui terreni sconnessi della politica italiana. Con l’altro dioscuro del Sud, Clemente, si alterna con impeccabile intermittenza: quando l’uno va fuori servizio, subentra l’altro, e viceversa. Se uno prega l’altro impreca, e quando uno recalcitra, l’altro acconsente. Sono complementari. Di questa coppia meridionale, che vagamente ricorda Totò e Peppino nelle nebbie del Nord, si sono lette gustose gag con pesanti accuse e insulti reciproci. Vorremmo salomonicamente dar ragione a tutti e due; Clemente e Tonino rappresentano alla perfezione l’anima ambigua e astuta del Sud, familista e fuorilegge nel nome della legge, che non sa vivere né con lo stato né senza lo stato e sbuffa in entrambi i casi.
Tonino Di Pietro è una sintesi mirabile tra Robespierre e la Vandea, aglio, olio e ghigliottina; la sua filosofia agro giudiziaria, il suo look togato rurale, il suo stile oscillante tra la Guardia repubblicana e la Guardia campestre. Lo aiuta la dicitura di provenienza, Montenero di Bisaccia, che sembra un luogo di orchi neri che portano via i bambini nella bisaccia. Ma a vederlo è un paese tutt’altro che sinistro.
Tonino è un Little Tony che perse il ciuffo e guadagnò la toga; nella sua fattoria di Montenero parla ai pulcini e accudisce oche, galline e maiali. Leader genuino di Forca Italia, nasce dall’humus del giustizialismo popolare meridionale, quello che fornisce carabinieri e poliziotti allo stato, guardie giurate e sceriffi; quella destra contadina col forcone che chiede maniere spicce e bruschi scapaccioni ai corrotti e agli smidollati. Non destra storica ma preistorica, che al manganello preferisce la clava. Ne conoscevo tanti di tonini al Sud, iscritti alla Fiamma o in divisa da maresciallo, sognatori di un bel golpe per raddrizzare la schiena agli italiani e imporre Legge e Ordine, orgasmo della destra antica.
Con la sua ruvida furbizia e rurale concretezza. Con quell’aria da colonnello Tejero che spaventò i parlamentari spagnoli irrompendo nelle Cortes con la pistola carica e il cappellino da torero, costringendo i deputati a nascondersi sotto i banchi per paura di essere matati... In lui rivive il mito di Zorro e della Pulizia Generale. Di Pietro è l’estrema speranza della sinistra antiberlusconiana ma incarna il filone genuino della destra autoritaria meridionale, dei colonnelli in pensione e dei brigadieri in servizio.

Il cuore dell’Entroterroni≠a comincia a Pietrelcina e finisce a San Giovanni Rotondo: l’arteria di Padre Pio. Vi prego, non trasformate san Pio nell’icona kitsch del Mezzogiorno superstizioso e tardone, che non investe in sviluppo e solidarietà ma in pacchiana paccottiglia e feticismo monumentale. A Rignano Carganico sorgerà una statua del santo di Pietrelcina alta 60 metri che costerà 10 milioni di euro. Sarà la millesima statua di Padre Pio, che è ormai dappertutto, perfino nei condomini e nelle stazioni di servizio del Sud. Ci sono più statue del frate che seguaci viventi con saio. Ma questo monumento che sorgerà nel piccolo centro garganico sarà gigantesco, come la statua della Libertà e il Colosso di Rodi. Sarà il frutto di una specie di azionariato popolare, coagulato tramite un sito internet, 10 milioni di pixel da un euro l’uno, in modo che ogni azionista potrà dire di aver portato il suo mattone. A lanciare l’iniziativa assiro-babilonese è un circolo culturale locale, ma il promotore è quell’ex frate Giuseppe Cionfoli passato dalla mistica leggera alla musica leggera, dal sacerdozio all’Isola dei famosi.
Il progetto è all’altezza di questa parabola, la riconversione di un santo in una star da reality, anzi da santity show, degna di Las Vegas più che del Gargano. Per carità, non si tratta di denaro pubblico ma di private e volontarie donazioni; e non addentriamoci nell’ipermercato della fede, tra simoniaci, creste e business, che ruota dietro i circuiti della devozione. Ma un santo come lui che ha aiutato e miracolato tante persone, meriterebbe di veder devolvere questa cifra enorme in opere di bene, assistenza ai malati, aiuto ai bisognosi, e in mille iniziative di vera beneficenza per il Sud. La statua invece è finalizzata al turismo religioso e a un culto che sfocia nell’idolatria.
Il disagio non nasce dalla diffidenza verso la devozione forte e diffusa a Padre Pio ma, al contrario, dal rischio che iniziative come queste squalifichino il santo, il suo culto e i suoi devoti. E alimentino la rinnovata ondata di antipatia verso Padre Pio cresciuta con l’uscita di libri e inchieste iconoclaste, pompata dai giornaloni del Nord, circoli laicisti e gruppi anticlericali, logge e lobby ostili al santo terrone e alla devozione antica e genuina che suscita. Hanno ripreso l’assurda storia delle stimmate artificiali, procurate con farmaci, e le polemiche antiche contro di lui, i dubbi sulla sua santità e le insinuazioni sulla sua vita. Stimmate durate mezzo secolo e poi scomparse all’approssimarsi della morte non sono frutto di acidi.
Si riprendono le famose registrazioni in confessionale per insinuare intimità sessuali con le devote. Non credo che nascondano torbide e focose passioni, ma lasciatemi scandalizzarvi: cosa volete che sia un cedimento sessuale rispetto a un grandioso percorso di santità? Ma davvero dobbiamo misurare la santità con questi metri miserabili, da virtuosismo borghese e da puritanesimo quacchero? Ho sentito fior di atei militanti che si appellavano perfino all’autorità di un papa, Giovanni XXIII, ostile verso il frate di Pietrelcina, per sostenere la loro campagna contro Padre Pio. Si sono convertiti al dogma dell’infallibilità del papa? Giammai, mi è stato risposto; e allora perché dovremmo credere a priori all’autorità di un pontefice, peraltro vistosamente smentito da un suo grande successore come Giovanni Paolo II?
Ho trascorso alcuni giorni nel convento che accolse Padre Pio da giovane, a Serracapriola, dove il culto del frate da Medioevo convive con il wireless, grazie a frate Antonio Belpiede, portavoce e missionario che ha cablato il convento. E là pensavo che Padre Pio è assurto agli altari per una forma insolita di elezione diretta, di democrazia plebiscitaria applicata alla santità. San Pio è il padre del popolino e delle donnette, visitato e criticato di nascosto dalle classi dirigenti, sprezzanti verso un fenomeno che ai loro occhi istruiti sa di peronismo religioso. Certo, c’è il risvolto fastidioso, la speculazione, il mercatino, il kitsch. Di fronte a una società che si crede più smagata ma poi coltiva superstizioni ancora più ridicole, legate agli oroscopi, ai segni zodiacali e a mille nuove credenze, il culto di Padre Pio rivela la familiarità con il sacro e l’irruzione del religioso nella vita quotidiana, il bisogno, anzi la fame di santità e di fede di una società orfana di senso e braccata dalla disperazione e dalla solitudine. Che vi sia anche superstizione e feticismo, può darsi; ma non è diverso da quello che alimenta per esempio il salutismo, con i suoi percorsi di benessere e i suoi camminamenti vascolari, le sue terme sensoriali e i suoi bagni di colore e di odore, i suoi rituali rilassanti e le sue liturgie corporali, più la paccottiglia similorientale che l’accompagna. Una nuova religione del corpo e della salute, che è la versione moderna e benestante dei vecchi pellegrinaggi con le acque sante, i pani benedetti e i passaggi miracolosi.
Di imitazioni gaudenti o terapeutiche di Padre Pio tra unguenti e fumi, santoni e naturopati, beauty farm e spa ce ne sono a iosa, ora anche al Sud. Dopo i credenti vengono i creduloni. Perciò lasciate che di Padre Pio ciascuno coltivi un suo altarino domestico, e magari conservi nel proprio portafoglio un’immagine, un ricordo, una traccia tramandata da una persona cara o che evoca una storia tragica e miracolosa. Però evitate di trasformare Padre Pio nella torre di Babele di una new age globale e terrona.