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 2009  aprile 20 Lunedì calendario

PIACE MENO LA TV SENZA PUBBLICITA’


La legge francese con cui Nicolas Sarkozy ha tolto la pubblicità alla televisione pubblica fa discutere in Europa e in Italia. L’associazione europea delle televisioni commerciali Act, durante un convegno di specialisti a Bruxelles, l’ha giudica­ta interessante. Al contrario, commentando l’even­tualità di cancellare gli spot da una rete Rai, il presi­dente di Mediaset Fedele Confalonieri l’ha liquida­ta sbrigativamente: «In Francia – ha detto – è sta­ta inutile: non ha portato nulla in più alle altre emit­tenti. In Italia succederebbe lo stesso». Prevedibil­mente negative sono poi state le reazioni informali dei manager Rai.

In realtà il bilancio dell’esperienza francese è an­che peggiore di come lo descrive Confalonieri: la legge voluta da Sarkozy non è stata solo «inutile», ma, almeno finora, si è tradotta in un flop dannoso per l’intero sistema televisivo. Gli esperti da noi sentiti la giudicano sbagliata nel merito, nel meto­do e nei tempi. Che cosa è successo in Francia? Dal 5 gennaio scorso – tra le otto di sera e le sei del mattino – è scomparsa la pubblicità sui canali del­la televisione pubblica di France Télévisions (la Rai d’Oltralpe): France 2, France 3, France 4 e France 5. Unica eccezione: le sponsorizzazioni di trasmissio­ni particolari o gli annunci di interesse pubblico che in ogni caso non interrompono i programmi nazionali e regionali delle quattro reti.

La legge promulgata il 7 marzo scorso si ripro­metteva innanzitutto di dirottare risorse pubblicita­rie dal piccolo schermo pubblico a quello privato e in secondo luogo (ma quest’ultimo è sempre stato da tutti giudicato un obiettivo solo dichiarato) di innalzare gli ascolti dei canali di Stato. In realtà non è accaduta né l’una né l’altra cosa. Anzi, è suc­cesso esattamente l’opposto.

A cambiare destinatario, secondo gli obiettivi del governo, dovevano essere 800 milioni di euro di spot: il grosso, circa 480 milioni, sarebbe andato al­le reti nazionali private Tf1 (di Martin Bouygues, amico personale del presidente) e M6, del gruppo tedesco Bertelsmann; 160 milioni a radio, stampa e affissioni; 80 a Internet e 80 ai canali digitali terre­stri.

Che cosa è avvenuto in realtà lo spiega Augusto Preta, di ITMedia Consulting: anziché trasferire su altri media la pubblicità prima pianificata sulle reti pubbliche, dice l’analista, gli inserzionisti hanno semplicemente soppresso gli investimenti. In buo­na parte per effetto della crisi economica. «Partico­larmente pesante il bilancio di Tf1, prima rete priva­ta di Francia, che nei primi due mesi del 2009 ha visto i suoi ricavi pubblicitari lordi diminuire del 20,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008, con una caduta del titolo in Borsa del 50 per cento. Ma anche M6 ha perso il 10 per cento degli incassi da spot».

Soltanto i canali digitali terrestri – 14 in chiaro e 14 a pagamento – possono brindare a champa­gne, visto che i loro ricavi pubblicitari aumentano dell’85% anno su anno. Ma questo sarebbe accadu­to comunque, perché gli investitori sono attratti dai forti progressi di au­dience della televisione non generali­sta. E in ogni caso, dal punto di vista del sistema, si tratta di pochi milioni di euro guadagnati a fronte delle centi­naia persi dai maggiori network na­zionali.

Erik Lambert, consulente televisivo di Silver Lining Project, sostiene che l’operazione è tecnicamente «sbaglia­ta alla radice». La pubblicità, afferma, non è un sistema a vasi comunicanti dove quello che si toglie da una parte va automaticamente dall’altra. E nep­pure le preferenze del pubblico fun­zionano così. Il legislatore, dice l’esperto, non ha tenuto conto delle tecniche usate dai pianificatori pubbli­citari per reclamizzare i prodotti.

«Quando si lancia una campagna pubblicitaria – spiega Lambert – l’obiettivo è arrivare al pubblico il più rapidamente possibile; e per raggiun­gere la saturazione si punta all’ascolto cumulato delle reti. Perché la campa­gna sia efficace lo spot dev’essere vi­sto da tre a cinque volte. Ciò significa comprare spazi su tutte le reti, non so­lo su alcune. In altre parole: non si ri­solve il problema della massima co­pertura investendo di più su una sola rete, ma solo investendo su tutte».

Del tutto mancato anche il secondo obiettivo dichiarato, che era quello di innalzare gli ascolti delle reti pubbli­che: l’ audience di France 2, 3, 4 e 5, nonostante l’assenza degli spot che «interrompono le emozioni», è addi­rittura diminuita (nel caso di France 3 dal 12,9% di dicembre 2008 al 12,1% del febbraio 2009), mentre quella dei privati di Tf1 e M6 è rimasta sostan­zialmente invariata (intorno rispetti­vamente al 26% e all’11%). Non poten­do trasmettere pubblicità dopo le 20, le reti pubbliche hanno anticipato alle 20.30 l’inizio della prima serata, forse scontentando anche in questo modo quella parte del pubblico che più gra­diva l’inizio dei programmi alle 20.45-20.50.

Perché il flop della legge? Da un la­to come si è detto pesa l’effetto reces­sione. Ma la crisi non è l’unica ragio­ne. Secondo Preta «in campo televisivo i provvedi­menti dirigistici sono quasi sempre e comunque sbagliati. In questo caso poi si vede come togliendo la pubblicità si favorisce il declino della tivù genera­lista. Un percorso oggi all’inizio, che viene accelera­to. E’ questo l’obiettivo?».

Non dovrebbe esserlo, visto che il governo ha previsto un meccanismo per compensare il calo dei proventi pubblicitari per la télé publique. Questa compensazione dovrebbe arrivare da una tassa del 3% sui ricavi pubblicitari delle reti private e da una tassa dello 0,9% sul fatturato dei servizi video degli operatori di telecomunicazioni. Purtroppo, visto che i ricavi delle reti private diminuiscono, la com­pensazione molto probabilmente non ci sarà. E quanto alle aziende telefoniche è prevedibile che si rifacciano aumentando i prezzi. In ultima analisi dunque la legge di Sarkozy non giova alle televisio­ni né ai telespettatori-contribuenti. Ai quali prima o poi verrà presentato il conto.

Che la legge sia nata sotto una cattiva stella è di­mostrato anche dal calendario. Il lettore avrà nota­to che la legge è diventata operativa il 5 gennaio, cioè due mesi prima di essere promulgata (7 mar­zo). E questo perché il testo ha avuto un iter parla­mentare a dir poco travagliato, al punto da spinge­re Sarkozy a chiedere al presidente (uscente) di France Télévisions Patrick de Carolis di anticipare l’applicazione della norma attraverso una delibera straordinaria del consiglio di amministrazione. Ini­ziativa senza precedenti.

Il calo dei ricavi pubblicitari non danneggia sol­tanto le emittenti di Stato ma l’intero sistema, com­prese le società di produzione esterne, che hanno visto immediatamente ridursi le richieste di pro­grammi da parte di France Télévisions: non tanto le grandi come Endemol quanto le piccole. I primi a muoversi con un’iniziativa ufficiale sono stati i produttori indipendenti inglesi la cui associazione ha mandato un rapporto di protesta contro la legge all’ambasciatore francese a Londra.

«Il rischio della televisione pubblica francese – dice lo svizzero Albino Pedroia, un manager televi­sivo che da 35 anni lavora a Parigi, prima in Havas e Canal Plus, oggi come consulente – è di diventa­re come la radio France Culture: noiosa, elitaria e sconnessa dal grande flusso mediatico televisivo. Una tivù che mettesse Molière in prima serata sa­rebbe destinata a diventare rapidamente margina­le. E in questo caso avremmo un paradosso: il servi­zio pubblico senza pubblico».

Per tornare all’inizio: qualcuno, in Italia, si è stu­pito delle affermazioni di Confalonieri. Ma come, non dovrebbe essere contento se togliessero gli spot a una rete Rai? L’esperienza francese aiuta a capire la netta contrarietà del capo di Mediaset; il quale probabilmente calcola che da noi accadrebbe la stessa cosa: anziché andare al Biscione gli spot Rai finirebbero nella pancia di Sky. Che è il suo av­versario vero.