Giulia Stok, La stampa 17/4/2009, 17 aprile 2009
TACCHI A SPILLO IN SIBERIA
Quel che più sorprende, più della vastità della taiga, più delle sculture di ghiaccio, più della brina che irrigidisce le ciglia, sono i tacchi a spillo. Siamo in Siberia, a metà strada tra i binari della Transiberiana e il circolo polare Artico, si cammina su marciapiedi di neve gelata, la temperatura oscilla tra i meno quindici e i meno trentacinque, e tutte le ragazze ticchettano leggere sulla neve compatta. Ci sono abilità che si acquisiscono solo ai confini del mondo. Arrivando a Kogalym, 58 mila abitanti, quasi tre ore di auto dall’aeroporto più grande della zona, Surgut, ci si chiede quale oscura ragione abbia spinto l’uomo a venire a vivere in queste lande desolate. Centinaia e centinaia di chilometri di conifere ricoperte di neve, interrotte solo da qualche fiume ghiacciato. La risposta è lungo la strada, nei fuochi dei pozzi di petrolio che lampeggiano nella taiga.
In quattro in 40 metri
Roman, ucraino, 47 anni sui documenti ma molti di più sulla pelle, Kogalym l’ha vista nascere. Ora abita con la moglie Alina, due figli, un gatto e un pappagallo nei canonici 40 metri quadrati, in uno dei tanti palazzoni in puro razionalismo sovietico. Lui lavora ai pozzi, la moglie alla centrale del teleriscaldamento, che funziona a pieno regime portando temperature tropicali in ogni casa. La Lukoil, la maggiore compagnia petrolifera russa, qui è il padrone che tutti ringraziano. Kogalym esiste in sua funzione, e la nuova città ha dato una speranza alle migliaia di immigrati arrivati dalle repubbliche ex sovietiche. Per le strade si incontrano bionde altissime, ma anche occhi a mandorla e pelli scure: si incrociano lingue e usanze diverse, ma tutti sono consapevoli che la loro convivenza sarà provvisoria. Ci sono una chiesa ortodossa e una moschea, e i rispettivi frequentatori si guardano in cagnesco. Gli ortodossi, benché non molto praticanti, evitano il mercato coperto appena fuori città, dove lavorano soprattutto musulmani. «Sono sporchi», dicono.
Un mese di lavoro, uno di ferie
Più dello Stato, che qui arriva quasi solamente con le facce di Vladimir Putin e Dmitry Medvedev nel televisore, è la Lukoil che detta le regole per tutta questa gente. Premia e punisce. Premia, soprattutto trattando i suoi operai meglio che altre aziende dello stesso settore nell’ex-blocco sovietico. E’ recente una vertenza sindacale in Bulgaria nella quale i dipendenti dell’azienda Neftochin lamentavano la perdita di diritti di cui avevano goduto finché l’azienda era compartecipata da Lukoil. Tra questi, ferie più lunghe e vitto gratuito durante gli orari di lavoro. A Kogalym si lavora un mese sì e uno no: il lavoro ai pozzi è pesante, si vive a 300 chilometri dalla città senza possibilità di tornare, la giornata dura anche 15 ore. Il mese successivo l’azienda dà il beneplacito per entrare in letargo, rimpinzandosi di dolci e vodka davanti alla tv. Qui un operaio guadagna relativamente bene, sui 250 euro al mese, e la pensione è maggiore del 60% rispetto alle altre regioni russe.
L’azienda però punisce anche. Avendo partecipato alla costruzione della città, molte strade verso le foreste sono di sua proprietà, e serve un permesso speciale, nominale, per utilizzarle. I controlli sono sporadici, ma in ogni caso nessuno ci passa senza il documento giusto. In ogni famiglia c’è un dipendente, e se lo fa viene licenziato.
Qui, dove il vivere insieme è contingente, la Lukoil costruisce un immaginario collettivo. Regala pupazzi a Natale ai figli dei dipendenti, pupazzi adatti a tutte le etnie, privi di simboli religiosi, sostituiti a pieno titolo dallo stemma aziendale. Decora in modo grandioso i suoi uffici, cioè praticamente tutti gli uffici della città, escluse le banche, ad ogni festa. E costruisce monumenti, come la «Kapla», la goccia di petrolio, il simbolo della città: le strutture per l’estrazione da una parte della goccia, la natura incontaminata dall’altra, poi il passato, rappresentato da uno Xanti (popolo autoctono semi nomade, simile agli eschimesi, che sta facendo la stessa fine degli Indiani d’America), e il futuro, con una coppia felice che si sposa.
Il patriarca come testimonial
Poiché non tutta la Russia è priva di radici come Kogalym, la compagnia non disdegna il simbolismo esistente: ha coinvolto perfino il defunto patriarca ortodosso in uno spot pubblicitario. Alessio II si rivolgeva a Dio dicendo: «Noi siamo grati alla Lukoil per il suo appoggio ai progetti della Santa Chiesa Ortodossa Russa che punta al revival di quello che fu distrutto negli anni della teomachia», mentre sullo schermo appariva a caratteri cubitali la scritta: «Evviva Lukoil! Ha dieci anni di vita per il bene della Santa Madre Russia!».
Nonostante tutti gli sforzi però, a Kogalym il petrolio resta un collante quanto mai fragile, uno strumento per arrivare altrove più che un fine. Christine è armena, ed è qui solo per fuggire: il biglietto da casa sua all’Europa costa 5 mila euro, da qui dieci volte meno. Ha già provato a venire in Italia, ma non ha trovato lavoro, e ora aspetta di avere i soldi per ritentare. Parla un russo rudimentale, a casa continua a parlare armeno, per trasmetterlo ai figli. «Magari loro potranno tornare» dice. I figli di Roman e Alina studiano: l’istituto superiore di Kogalym è all’avanguardia per laboratori e attrezzature didattiche. Ivanka vuole lavorare nel settore turistico, si sposterà a Tyumen, e poi sogna Venezia. Il ragazzo invece farà l’ingegnere, e dopo l’università vuole tornare qui. «C’è petrolio almeno per altri settant’anni». E poi? Alza le spalle, non sarà un problema suo.