Giuseppe Culicchia, La Stampa 19/4/2009, 19 aprile 2009
Jean Ziegler, politico svizzero, è docente di sociologia alla Sorbona e all’Università di Ginevra, e relatore speciale sul diritto all’alimentazione per la commissione sui diritti dell’Uomo presso le Nazioni Unite
Jean Ziegler, politico svizzero, è docente di sociologia alla Sorbona e all’Università di Ginevra, e relatore speciale sul diritto all’alimentazione per la commissione sui diritti dell’Uomo presso le Nazioni Unite. In Italia si è fatto conoscere una ventina di anni fa con un volume assai fortunato sul tema del riciclaggio dei capitali, La Svizzera lava più bianco. E Luca Rastello, per la quarta di copertina del suo Io sono il mercato (edito qualche settimana fa da Chiarelettere, sottotitolo «Come trasportare cocaina a tonnellate e vivere felici - teoria, metodi e stile di vita del perfetto narcotrafficante») ha scelto una frase di Ziegler: «La situazione è paradossale. Si promulgano leggi sempre più severe contro il riciclaggio nelle banche legali ma al tempo stesso l’infiltrazione del capitale criminale nell’economia legale assume proporzioni sempre più inquietanti». Basti pensare che la prima azienda italiana è com’è noto la mafia, che con il suo fatturato sopravanza la Fiat e ogni altra impresa del Belpaese. E che il prodotto di punta della mafia è, in Italia come altrove, proprio la cocaina. Il libro di Rastello, che oggi dirige Osservatoriobalcani.org dopo aver diretto Narcomafie e L’Indice dei Libri del Mese, tratta dunque una questione centrale per chi si occupi oggi di economia. E riesce a dare un quadro del fenomeno ben più inquietante di quello che si ricava dalla lettura delle pagine di cronaca dei quotidiani, dove si parla di cocaina solo in occasione di sequestri da parte delle forze dell’ordine (in genere si tratta di quantitativi tutto sommato modesti rispetto a ciò che arriva in Europa, spesso trasportati da corrieri mandati allo sbaraglio dopo essere stati riempiti di ovuli) o in riferimento a notizie degne del Guinness dei Primati (l’enorme quantità di cocaina che si consuma a Firenze come a Torino o a Milano o a Londra in base all’analisi delle acque reflue dei fiumi, oppure la cocaina rilevata dalle centraline anti-smog perfino nell’aria: è successo tempo fa a Roma, dalle parti della Sapienza, roba che nemmeno Burroughs o Ballard sarebbero stati in grado di inventarsi qualcosa del genere). Ma di cocaina dovrebbero forse occuparsi le pagine di economia, e quelle di politica: perché è proprio la cocaina, spiega Rastello, a reggere oggi l’economia di tanti Paesi e a rendere possibili determinate politiche. Anche qui da noi, nel Nord del pianeta. La cocaina viaggia per il mondo a tonnellate, nei cargo, e sposta montagne di soldi: dove per intenderci le montagne di soldi corrispondono al Pil di Paesi industrializzati. Così, il «narco» dei nostri giorni è una figura assai lontana dallo stereotipo hollywoodiano in stile Scarface. Non fosse per la passione della categoria per la ristorazione (tutti i trafficanti adorano da sempre aprire locali alla moda, dove ovviamente riciclano i loro guadagni), si tratta ormai a tutti gli effetti di manager. Molto creativi, per ciò che riguarda la gestione del loro settore, e capaci di stipare cocaina nei serbatoi dei Tir e soldi nelle intercapedini delle lavatrici. Già, perché il problema è che malgrado la vasta pubblicistica su società finanziarie e scatole cinesi e paradisi fiscali, tutta la cocaina che viaggia per il globo viene pagata in contanti, e far stare in una valigia un milione di dollari o più non è proprio così semplice. Comunque: Rastello, una vita che si occupa di mafia e di droga, per scrivere Io sono il mercato si è fatto raccontare come funziona il sistema da un professionista vero, uno che tiene a definirsi «imprenditore» e che rivendica qualità manageriali, altro che l’immaginario fatto di abiti gessati e capelli impomatati. Nel racconto di questo personaggio (uno che ha scontato la sua pena e che ha parlato dietro la garanzia dell’anonimato) prende forma un vero e proprio manuale, e compaiono nomi entrati a modo loro nella Storia: per esempio quello del colonnello Oliver North, che si procurava la coca dai cartelli colombiani per finanziare i Contras in Nicaragua. E naturalmente quello del più grande «narco» di ogni tempo, Pablo Escobar, l’uomo capace di scavare un tunnel sotterraneo tra Ciudad Juarez e El Paso per beffare i controlli alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, ma che a un certo punto commette un errore fatale, ficcandosi in testa di diventare addirittura deputato. Che bisogno c’era?, si chiede l’«imprenditore». Non è necessario entrare in politica, come ha imparato peraltro anche Cosa Nostra dopo le stragi del ”92: «basta conviverci». così che la cocaina finisce col finanziare guerre (è il caso, in Europa, dell’ex Jugoslavia, dove i trafficanti hanno fornito a credito cocaina all’ingrosso e armi: chi ha rivenduto la droga al dettaglio è riuscito a ripagarsi sia questa sia le armi), condizionando l’economia legale e ricalibrando i rapporti internazionali. E i cinque capitoli in cui si snoda il libro diventano vere e proprie lezioni impartite dal narcotrafficante al lettore: perché, scrive l’autore, «per vedere il lato oscuro del sistema del commercio mondiale non basta gettare uno sguardo sul mondo criminale, ma è necessario assumere uno sguardo criminale sul mondo». Un mondo dove ogni dollaro investito in cocaina ne rende dieci, e molto velocemente. Sullo sfondo, va da sé, resta la questione del modello culturale. La cocaina è oggi parte integrante e motore di uno stile di vita sempre più comune. La diminuzione del prezzo al consumo, consentita dall’enorme traffico e dal fatto che la droga viene tagliata finché non ne rimane che il 18 per cento, nel corso di questi anni ha consentito al mercato di trovare sempre nuovi clienti, e sempre più giovani. Facendo tesoro delle lezioni del marketing: la cocaina è agli occhi di chi ne fa uso una sostanza che aumenta la produttività e non comporta l’esclusione. Star come Kate Moss e Amy Winehouse la conoscono bene e sono sempre «al top». Per cui, che male c’è?