Michele Ainis, La Stampa 19/4/2009, 19 aprile 2009
Questa è una storia di lassismo burocratico, di governi complici, di leggi scritte sulla carta però allegramente disattese
Questa è una storia di lassismo burocratico, di governi complici, di leggi scritte sulla carta però allegramente disattese. Tal quali le leggi antisismiche crollate all’Aquila insieme al terremoto. D’altronde pure questa storia deflagra il 6 aprile, benché nessuno fin qui ci abbia prestato caso. E anch’essa lascia almeno un morto sotto le macerie. Non - per fortuna - un morto in carne ed ossa. Ma la vicenda è analoga, sia pure con la differenza che separa la tragedia dalla farsa. E la vittima reca a sua volta un nome illustre: la statistica, o almeno la statistica ufficiale. La più inesatta fra le scienze esatte, dice chi non le vuol bene. Tuttavia una disciplina coltivata fin dall’antico Egitto, a Roma sotto Augusto imperatore, nella Cina dei Ming. Perché costringe i governi a ragionare sulle cifre, e perché dunque rappresenta il faro delle politiche pubbliche. Fu Leibniz il primo a proporre la creazione di un ufficio nazionale di statistica. In Italia la sua idea venne realizzata nel 1861, perfezionata nel 1926, quando sorse l’Istat. La settimana scorsa ne abbiamo decretato i funerali, senza esequie di Stato, senza neppure un necrologio. Tutto comincia nel giugno 2007, quando un direttore dell’Istat dichiara candidamente a Panorama che ogni anno 350 mila questionari inviati alle imprese e ai cittadini restano senza uno straccio di risposta. L’ennesima prova dello scarso senso civico del popolo italiano, verrebbe da pensare. Solo che in questi casi - in Italia come altrove - la risposta è (era) obbligatoria; e a propria volta l’Istat ha (aveva) l’obbligo di perseguire i colpevoli, applicando una sanzione pecuniaria. Vi ha mai provveduto? Macché. Alle nostre latitudini le leggi sono come le raccomandazioni della suocera, nessuno le prende mai sul serio. Sennonché il sindacato Usi/RdB, fatti due calcoli, denuncia i vertici dell’Istat per danno erariale; e la procura della Corte dei conti lo quantifica in 191 milioni di euro, di cui 95 da scucire al presidente Biggeri. L’udienza si terrà il 12 ottobre prossimo. Nel frattempo però scattano le operazioni di soccorso. Il governo Prodi, fra un rantolo e un lamento, trova le forze per varare l’«indulto statistico», infilando nel decreto milleproroghe (febbraio 2008) una norma che non proroga un bel nulla, anzi chiude i conti col passato. Come? Inventando la risposta non risposta. Il Dio degli azzeccagarbugli sarà saltato sulla sedia: con questa norma rischia la multa solo chi mette per iscritto la sua volontà di sottrarsi ai questionari Istat, solo chi risponde di non voler rispondere. Ovviamente non lo fa nessuno, anche perché sarebbe come denunciarsi. Sarebbe come stabilire che gli evasori fiscali d’ora in avanti verranno castigati a condizione che dichiarino al fisco d’essere evasori. Una capriola logica e insieme un ossimoro giuridico: l’obbligo non obbligatorio. Fine? Per il passato sì, ma c’è da preoccuparsi del futuro, dato che l’indulto statistico non vale dal 2009 in poi. Qui allora arriviamo al governo Berlusconi, arriviamo per l’appunto al 6 aprile: quando la Gazzetta Ufficiale pubblica un decreto che restringe da 144 a 29 le indagini statistiche a risposta obbligatoria. Ci si potrà più fidare delle rilevazioni Istat? Se già in passato Eurostat (l’ufficio statistico della Commissione europea) le prendeva con le pinze, da domani varranno meno d’un oroscopo tracciato sui segni zodiacali. Senza un martello da piantare sulla testa ai renitenti, da domani l’Istat non sarà più in grado d’offrire statistiche attendibili e complete. Anche perché le materie depennate non sono affatto marginali: c’è dentro il turismo, l’agricoltura, i trasporti, l’ambiente, i consumi delle famiglie, il tasso d’occupazione nelle piccole imprese, la sicurezza, gli aborti, le malattie infettive. C’è tutto il capitolo delle costruzioni, proprio adesso che cadono una addosso all’altra come un castello di tarocchi. C’è infine la giustizia, e magari è un bene per l’immagine consunta del Paese, così nessuno potrà più misurare i tempi biblici dei nostri processi. Ma dopotutto non c’è scandalo: in Italia l’informazione, al pari della legge, non è una cosa seria. michele.ainis@uniroma3.it