Mario Baudino, La Stampa 19/4/2009, 19 aprile 2009
Giuliano Soria ha saputo dal piccolo televisore in cella che il fratello Angelo era entrato nello stesso edificio, anche se piuttosto lontano da lui che è nel reparto della comunità «Arcobaleno»
Giuliano Soria ha saputo dal piccolo televisore in cella che il fratello Angelo era entrato nello stesso edificio, anche se piuttosto lontano da lui che è nel reparto della comunità «Arcobaleno». Forse non è stata nemmeno una sorpresa, dopo i lunghi interrogatori. Ma il colpo è stato duro. Con l’arresto di Angelo non è più solo questione del Grinzane Cavour, di una multinazionale che crolla: queste manette, come in un romanzo ottocentesco, abbattono l’orgoglio tenace di una famiglia. E la famiglia, per i fratelli Soria, era la mamma, l’energica signora Iolanda Beccaris, 82 anni, che ora aspetta nella casa di via Montebello, accanto agli uffici vuoti e desolati. Proprio lì c’era stato tre anni fa un duro confronto che qualcuno aveva ascoltato. Angelo Soria stava dicendo di essere tentato dalla pensione. Giuliano era rimasto silenzioso, ma la madre aveva preso in pugno la situazione: «Non puoi farlo. Devi aiutare tuo fratello e il Grinzane». E basta. Era lei la stratega; a Costigliole, dove tutto è cominciato, ne sono sicuri. Forse c’è un po’ di esagerazione, ma all’origine della saga dei Soria, fatta di astuzia contadina e disinvoltura postmoderna si staglia la figura di questa donna energica e volitiva, tutta figli, «roba», successo. Non che la interessassero gli scrittori, né le conferenze e i dibattiti del Grinzane in giro per il mondo. Era sempre presente, silenziosa e discreta, in ogni trasferta internazionale, coccolatissima dal figlio Giuliano (Angelo non partecipava, fedele al suo ruolo di silenzioso e potentissimo ministro ombra); ogni tanto dava segni di noia, e allora il patron del Grinzane la affidava a qualche autrice, o relatrice, per un po’ di compagnia. La scena era la stessa. Un sorriso di circostanza, e si faceva buon viso alla piccola seccatura. Un omaggio dovuto. I Soria vengono dalla piccola borghesia di paese, da un mondo frugale, spesso taccagno: anzi, come scriveva nel ”93 Giuliano rievocando le sue terre e le sue famiglie, «dal magico bricco di Lù quella di mia madre, da Calosso quella di mia padre (lì c’è una frazione che si chiama proprio Soria, dalla quale è venuto mio nonno il fré, che è il soprannome di famiglia)». Pochi anni dopo non aveva resistito alla tentazione di celebrarlo intitolando a lui una delle società satelliti del premio, «Le terre del frè», e cioè del fabbro. Ora la stirpe del fabbro signoreggiava su di esse. E di strada ne aveva percorsa davvero tanta. Il papà se n’era andato presto, nel ”76. Mamma Iolanda gestiva il piccolo negozio di alimentari in frazione Sant’Anna di Costigliole, al pian terreno della casa di famiglia, amministrato con una strenua attenzione al denaro, anche a rischio di finire nei guai. Nel ”79 arrivò la finanza, perché girava zucchero a camionate, ed era in corso nella zona un’indagine sul vino «addizionato» abusivamente. Venne denunciata, anche per evasione fiscale (quattro miliardi e mezzo tra reddito e iva), poi l’inchiesta andò per le lunghe e finì con una pena pecuniaria. In paese non era simpatica, la consideravano troppo furba. L’ultima volta che l’hanno vista è stato due anni fa, al bar, col suo cagnolino. Ormai preferiva Torino e Parigi, dove le case del figlio erano un tangibile segno che i Soria ce l’avevano fatta. Le piaceva sfogliare i giornali sulle panchine dei Jardins du Luxembourg. Era appagata: i due ragazzi piccoli borghesi partiti per l’Università uno a Torino l’altro a Urbino, grazie a lei, avevano fatto meraviglie. Uno era un ras della cultura, l’altro un potentissimo funzionario regionale. Un intoccabile, cui veniva attribuita la caduta di almeno due assessori. E che poteva autorizzare i finanziamenti per le società riconducibili al fratello senza che nessuno (o quasi) trovasse nulla da dire. L’ascesa era iniziata nel lontano 1982, quando Giuliano Soria, reduce da un periodo di studi post-laurea a Parigi, si era impegnato nella redazione della Sei, a Torino, per aiutare il direttore, Don Meotto a lanciare un premio dedicato ai giovani. In breve lo sostituì: scelse il nome di Grinzane-Cavour perché nel comune delle Langhe c’era un castello bellissimo, coniugò letteratura e cultura materiale, e da un bilancio iniziale di venti milioni (di lire) arrivò negli anni ai milioni di euro. Moltiplicava iniziative e finanziamenti come un prestigiatore, riusciva a coinvolgere fondazioni bancarie, politici, ministeri e ministri di ogni colore. Sbarcava all’estero, da New York e Mosca, come un faraone. Si era reincarnato in lui il pifferaio di Hamelin, e tutti gli andavano dietro. Giuliano era il grande antipatico e il grande seduttore. Il fratello, discreto e invisibile, il primo tessitore, assicurava l’indispensabile aggancio piemontese, indifferente ai cambiamenti di giunta. E mamma Iolanda continuava a tenere i conti veri, come fossero quelli del negozio d’alimentari. La saga dei tre Soria ha avuto come palcoscenico il mondo. Ora quel che ne resta è in due celle, identiche, in una grande prigione; e in un appartamento troppo vuoto per una donna anziana.