Vittorio Emanuele Parsi, La Stampa 19/4/2009, 19 aprile 2009
A che gioco sta giocando l’Iran? solo una coincidenza che le dichiarazioni concilianti del presidente Ahmadinejad circa la disponibilità ad accogliere le offerte di dialogo provenienti da Washington siano contemporanee alla condanna per spionaggio della giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi? In Medio Oriente, prendere qualche ostaggio prima di iniziare una trattativa è una tattica consolidata da secoli, ma l’incredibile condanna a 8 anni di reclusione di Saberi rischia di costituire un ostacolo forse insormontabile per un’amministrazione come quella di Obama, che è sì a caccia di qualche successo concreto, ma non a qualunque costo
A che gioco sta giocando l’Iran? solo una coincidenza che le dichiarazioni concilianti del presidente Ahmadinejad circa la disponibilità ad accogliere le offerte di dialogo provenienti da Washington siano contemporanee alla condanna per spionaggio della giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi? In Medio Oriente, prendere qualche ostaggio prima di iniziare una trattativa è una tattica consolidata da secoli, ma l’incredibile condanna a 8 anni di reclusione di Saberi rischia di costituire un ostacolo forse insormontabile per un’amministrazione come quella di Obama, che è sì a caccia di qualche successo concreto, ma non a qualunque costo. infatti imbarazzante, dopo tanta retorica benintenzionata nei confronti dei propri avversari e degli ex Stati-canaglia, far finta di niente e continuare su una linea conciliante mentre una cittadina americana viene condannata a una pena tanto severa per un’accusa molto verosimilmente inventata di sana pianta. Il presidente Ahmadinejad ha dato in questi anni ampie prove di un’abilità politica che va ben oltre il venerato concetto politico iraniano della «dissimulazione» estrema delle proprie reali intenzioni. Che sia spregiudicatezza portata al parossismo o che invece si tratti di una schizofrenia imputabile alle consuete lotte intestine al regime degli ayatollah (esacerbate dalle prossime elezioni presidenziali) lo scopriremo presto. Certo è che mentre si avvicina la scadenza dei «cento giorni», la politica estera non ha fin qui dato all’inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue soddisfazioni paragonabili agli sforzi intrapresi e agli azzardi accettati. «Vivere pericolosamente» non è il titolo di una ballade di Bruce Springsteen (o di Vasco Rossi), ma potrebbe ben essere lo slogan della politica estera obamiana. In particolar modo in Medio Oriente, Obama sta prendendo seri rischi di scontentare amici consolidati (Israele e i sauditi, innanzitutto,) a fronte di pochi segnali positivi concreti dagli Stati che fino a ieri rappresentavano la residua componente mediorientale dell’«asse del male» (la Siria e l’Iran). Certo, la partita sulla proliferazione nucleare e sull’equilibrio regionale che si gioca con l’Iran è importantissima. Il presidente americano sa bene che se gli riuscisse il duplice colpo di ottenere l’apertura di un dialogo effettivo ed efficace con l’Iran sulla questione del controverso programma atomico e di far stemperare i toni del virulento anti-sionismo del regime teocratico, potrebbe imporre una svolta storica alle prospettive di pace in tutta la regione. A Washington, nel frattempo - e non solo tra i repubblicani o al Congresso, ma probabilmente anche ai vertici del Dipartimento di Stato - in molti si chiedono quanto possa essere affidabile la sponda iraniana, a prescindere da chi la rappresenti. Ma la domanda cruciale è probabilmente diversa, e cioè come giocheranno le proprie carte gli altri attori regionali rilevanti e, tra questi, Israele e Arabia Saudita appunto. Che gli israeliani si fidino piuttosto poco del «nuovo corso» americano era noto ed evidente già durante la campagna elettorale, e le mosse successive del presidente Obama non hanno fatto che accrescere il nervosismo di Gerusalemme. Ma è Riad che teme particolarmente di essere lasciata col cerino in mano dagli americani, e di vedere rapidamente svalutata la carta più importante di quelle tradizionalmente a disposizione dai sauditi nella loro strategia mediorientale: ovvero il fatto che il sostegno americano al ruolo saudita nel Golfo non solo fosse indiscutibile (soprattutto da quando la monarchia meccana si era di fatto sfilata dal fronte anti-israeliano), ma venisse a essere oggettivamente e ulteriormente rafforzato dalla comune avversione all’Iran. L’unico modo per rassicurare Riad, e saggiare la sincerità dei buoni propositi iraniani, sarebbe quello, tutt’altro che semplice, di coinvolgere l’Arabia Saudita (magari insieme a Egitto e Giordania) come «parte terza» nel lungo, delicato e incerto processo di approccio tra Washington e Teheran (come suggerisce un recente paper pubblicato dalla Rand Corporation), così da farne una prima tappa per la costruzione di un sistema multilaterale di sicurezza collettiva nel Golfo, in grado successivamente di includere l’intero Levante, Israele, Libano, Siria e Palestina compresi.