Giuseppe Videtti, la Repubblica 19/4/2009, 19 aprile 2009
Ha gli occhi rossi. «Ogni volta che scrivo una bella canzone mi commuovo», dice. Per la verità, non sembra il momento ideale per comporre
Ha gli occhi rossi. «Ogni volta che scrivo una bella canzone mi commuovo», dice. Per la verità, non sembra il momento ideale per comporre. Tiziano Ferro sta preparando il nuovo tour (che è partito ieri sera da Rimini), e questa volta non sono solo palasport (4 e 5 maggio al Datch Forum di Milano), il 24 giugno lo aspetta lo Stadio Olimpico di Roma. C´è un bel daffare: scegliere la sequenza dei brani, istruire i coristi, affiatarsi con il gruppo, coordinare i movimenti di scena. E le lezioni di canto, «perché le corde vocali se le rompi non puoi sostituirle come quelle del violino». Cose da popstar, insomma. «Star?», esclama sgranando gli occhi. Scoppia in una fragorosa risata: «Chi io? Grazie, ma non ne sono sicuro». Come no? Quattro dischi di successo, milioni di copie vendute, tour mondiali, fan in delirio. E poi dozzine di collaborazioni, un album scritto e prodotto per Giusy Ferreri, il caso discografico dell´anno scorso («La odiai la prima volta che la vidi cantare. Mi infastidiva. In realtà ero solo stregato dalla sua voce»). Riflette: «Mi sento felice, soddisfatto, ma non riesco a fare un bilancio reale. Siamo in un momento in cui non si sa qual è il punto di riferimento, certo non più la classifica, di dischi non se ne vendono. triste, ma è così. Io, per riderci su, dico sempre che ho preso l´ultimo treno». Tiziano è un secchione. 55/60 alla maturità scientifica, poi subito all´università. Non una facoltà da bamboccione, ingegneria. Nel frattempo scrive canzoni. Vorrebbe cantarle, ma la risposta è sempre no. Lo boccia anche l´Accademia della Canzone di Sanremo. bravissimo a fare l´imitazione di Mara Maionchi, quando racconta delle grasse esclamazioni che lei e suo marito Alberto Salerno (i produttori che hanno intuito il suo talento) fanno quando ascoltano Xdono. Bellissima, ma la risposta dei discografici è sempre no. «Tu non sei adatto, falla cantare a qualcun altro», gli dicono. Invece l´album Rosso relativo, nel 2001, esplode come una bomba. Ma i conti non tornano. «Mi sono ritrovato popstar, ma senza privilegi e squattrinato». Vendite milionarie, ma la maggior parte dei proventi finisce nelle tasche dei suoi talent scout. Sul contratto c´è scritto così. «La mia situazione economica era completamente scollata dalla celebrità», ricorda. «Era un problema anche affrontare un tenore di vita all´altezza della situazione. Non è che volessi la Ferrari, ma almeno avere la possibilità di accendere un mutuo. Per farla breve, avevo pubblicato tre dischi di successo e non potevo comprarmi una casa. Quello è stato il momento in cui ho svalvolato. Mi sentivo in balìa di una situazione che non riuscivo a controllare, erano cambiate tante, troppe cose. Temevo la sindrome della popstar: l´isolamento. Non era quella la realtà che avevo immaginato per me. Avevo degli amici che a ventitré anni si stavano laureando in giurisprudenza, scienze della comunicazione o medicina, e io lì a fare dischi, senza imparare niente di nuovo. E senza una lira». Gli viene in soccorso l´altro Tiziano, il secchione, quello che a Latina, da adolescente, cantava nel coro gospel, frequentava il liceo, giocava a rugby e scriveva canzoni. «Allora - nel 2003, dopo aver inciso il secondo disco - prendo il coraggio a quattro mani e faccio il test d´ingresso all´università di lingue per interprete e traduttore. A Los Angeles. Ho portato avanti il corso di laurea, mi sono trasferito alla succursale di Puebla, in Messico, perché trovavo Hollywood detestabile. stata la prima frattura fra me e il lavoro: dopo il successo sconvolgente, ho voluto ristabilire un contatto con me stesso, con la mia quotidianità. In quei tre anni ho capito come mi piace vivere e da lì ho imparato la lezione: d´ora in poi si fa, ma si fa come dico io». Non un parola per maledire quel primo contratto capestro. «Mi mise in sintonia con la musica. Di quello volevo vivere. Se all´improvviso mi fossero arrivati i milioni dei dischi venduti, mi sarei rincoglionito», ammette. E sembra sincero. «Ma che umiliazione quando, a ventitré anni, dopo aver venduto tre milioni di dischi, il direttore della banca, davanti a mio padre, mi disse: "Ti vediamo ovunque, sappiamo che sei famoso, ma qui non ci sono gli estremi per accendere un mutuo"». Sa che nello star system lui è un caso isolato, che se fosse stato in America, dopo Xdono e Sere nere, avrebbe viaggiato in limousine e abitato in una villa con maggiordomo a Beverly Hills. «Forse alle star piace vivere in quel modo, a me no», protesta. «Quando ho iniziato, vivevo di speranze. E stupidamente immaginavo che successo e ricchezza potessero compensare alcune altre mancanze». Il secchione lo riporta con i piedi per terra. Dopo la laurea messicana, non torna a Latina, si stabilisce a Londra. «Ho sempre bisogno di affrontare una nuova sfida. Vivo in Inghilterra da quattro anni, è bello, stimolante. Non posso fermarmi a pensare che a ventinove anni ho visto tutto, imparato tutto dalla vita, quando i miei amici si stanno specializzando in ginecologia e studiano progetti all´avanguardia per multinazionali. Di bamboccioni non ne ho mai conosciuti. I miei amici parlano tre lingue, conoscono benissimo il computer, viaggiano. E io dovrei accontentarmi di una canzone in tv? Allora mi sono detto, dai muoviti, alza il culo, fai qualcosa di più». Insomma, la canzonetta è bella, ma ha i suoi limiti. «Ah no, attenzione, la canzonetta non si tocca», interrompe. «La canzonetta cambia la vita alla gente, come l´ha cambiata a me. Tutti la maltrattano, ma in fondo sanno che è preziosa. Quel che volevo dire è: ho cominciato a fare questo lavoro a vent´anni. A quell´età non ci si può accontentare delle lusinghe del successo. Pensavo che con un lavoro universalmente riconosciuto avrei anche potuto fare a meno di una laurea. Mi sbagliavo. Pensavo che se uno si sente amato e rispettato dagli altri, automaticamente si ama e si rispetta di più. Mi sbagliavo. L´inquietudine resta la stessa». A quanto pare, Tiziano Ferro, il secchione, è ancora il ragazzo di Latina. Niente è cambiato. «E invece è cambiato tutto», ammette. «Prima del successo, vivevo con i miei, non mi ero mai mosso da Latina. A parte la gita scolastica a Praga. Un solo aereo in vita mia. Purtroppo cambia tutto. Non sopporto le persone che ti dicono: non cambiare mai. il consiglio di chi ti odia. Se hai un cervello e un cuore, è normale che cambi di fronte alle sollecitazioni della vita. "Non cambiare, resta quel che sei". E come fai quando tutto il resto cambia, le abitudini, il calendario, le esigenze?». La passione per la musica è stata alimentata in casa. Papà geometra, mamma odontotecnica. Lui innamorato di Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Janis Joplin. Lei tutta per Riccardo Cocciante, De Gregori, Battisti, Battiato. «Non ricordo un giorno della mia vita senza musica», racconta. «Ho consumato le cassette del Nostro caro angelo e Cervo a primavera. Un miliardo di ascolti. Ma anche del White album e The wall. Ho scoperto la mia voce scrivendo le prime canzoni. Anche se all´inizio le immaginavo cantate da altri: Laura Pausini, Giorgia, Zucchero, Anna Oxa. Poi ho cominciato a usare la mia voce, maleducatissima e assolutamente istintiva. Il coro gospel era rassicurante, lì ero protetto, mi nascondevo tra gli altri. Una volta il direttore sentendomi cantare Nobody knows the trouble I´ve seen, fermò le prove e mi chiese di fare un passo in avanti. "Ricantala da solo", disse. Da quel giorno divenni solista. Ci presi gusto. "Quasi quasi me le canto io le mie canzoni", pensai. Volevo fare della musica un mestiere, non importa in che modo, esecutore o autore, no problem. E per quattro anni ho bussato a ogni porta. Sono tanti quattro anni...». Il successo è arrivato all´istante. Non ha dovuto incidere tre album per entrare nella testa della gente. Centro al primo colpo. E, come succede alle popstar, con i trionfi arriva l´adorazione. E qualche stranezza. «Di bizzarrie la nostra vita è piena», racconta. «Una fan svizzera ha fatto realizzare una scultura in cioccolato massiccio di Tiziano Ferro, quasi a grandezza naturale, e me l´ha fatta consegnare in hotel. La cosa più scioccante è stata dovermi sbriciolare e spaccarmi la faccia. Mi ha fatto sentire privilegiato e amato. Tanta attenzione da una persona che in fondo non ti deve niente. Ma mi ha anche fatto riflettere: il peso specifico che un cantante può avere nella vita di una persona è enorme. E poi in America latina... le ragazze... meglio non raccontare. Questa è una professione che dà tanto e toglie altrettanto. A me ha tolto il contatto con le persone. Ciò che paradossalmente dovrebbe renderti più partecipe della vita della gente in realtà ti allontana. Inevitabilmente cominci a proteggerti, perché pensi che non tutti quelli che ti avvicinano lo facciano con una buona intenzione. Io per fortuna ho avuto solo una esperienza di violenza fisica. Ho beccato un pugno in piena faccia da uno che diceva che mi ero stretto troppo alla sua ragazza in una foto di gruppo con i fan. Basta un episodio come quello per creare un paravento tra te e la gente. Un´altra cosa che non mi piace, di questo lavoro, è che inevitabilmente ti scolla dalla realtà. Per questo io cerco disperatamente di riprendere i miei spazi. Anche se non fuggo mai sull´isola deserta. Resto iperattivo anche in vacanza. Se non canto, datemi almeno un libro di esercizi d´inglese». S´infila il giubbotto, chiama un taxi. Di corsa verso un altro studio. Ha fretta d´incidere la nuova canzone. Quella che gli ha fatto gli occhi rossi.