Marco Contini, la Repubblica 19/4/2009, 19 aprile 2009
Condannati per dovere costituzionale a occuparsi di umane miserie come porto d´armi, aborto o pena di morte, i nove justices degli Stati Uniti, i membri di quella Corte Suprema cui spetta la parola definitiva su ogni contenzioso d´America, si sono costruiti un hobby degno della migliore tradizione dei talmudisti: risolvere la diatriba plurisecolare sulla vera identità del più grande drammaturgo dell´era moderna, William Shakespeare
Condannati per dovere costituzionale a occuparsi di umane miserie come porto d´armi, aborto o pena di morte, i nove justices degli Stati Uniti, i membri di quella Corte Suprema cui spetta la parola definitiva su ogni contenzioso d´America, si sono costruiti un hobby degno della migliore tradizione dei talmudisti: risolvere la diatriba plurisecolare sulla vera identità del più grande drammaturgo dell´era moderna, William Shakespeare. Deus ex machina di questo sfizio intellettuale che da anni impegna le menti del gotha dei giureconsulti d´Oltreoceano è John Paul Stevens, il decano della Corte. Nominato nel 1975 da Gerald Ford, che pensava d´aver trovato in lui un sincero conservatore ma scoprì suo malgrado di aver consegnato la suprema toga a un liberal autentico, Stevens è un anglista mancato. Dottorando in Letteratura, mollò tutto nel ´41 per arruolarsi in Marina e, a guerra finita, per iscriversi a Legge. Ma l´antica passione non lo ha mai abbandonato e, come rivelava ieri il Wall Street Journal, lo ha spinto a coinvolgere i suoi onorati colleghi in un divertissement intellettuale che va avanti da oltre vent´anni, e che dopo infinite letture, dibattiti e scambi epistolari sembra finalmente giunto a sentenza: altro che genio letterario, il signor William Shakespeare, volgare teatrante, sarebbe soltanto il prestanome di Edward de Vere, 17° conte di Oxford e vero autore del Macbeth, dell´Otello e dell´Amleto. La tesi non è nuova, e Stevens, che è uomo onesto, non ne pretende la paternità. Ma interpellato sul tema, si dice convinto «oltre ogni ragionevole dubbio», come recita la formula usata nei tribunali per stabilire la colpevolezza dell´imputato, della sua fondatezza. Le prove? La perfetta descrizione di luoghi - Verona, per esempio - dove Shakespeare non aveva mai messo piede, ma che il conte aveva visitato; la somiglianza tra alcuni personaggi shakespeariani e persone dell´entourage di de Vere; e infine, la singolare assenza di libri dalla casa del drammaturgo (versus le centinaia di tomi lasciate dal conte). L´opinione di Stevens è condivisa da colui che di solito è il suo più acerrimo avversario, il giudice ultraconservatore Antonin Scalia. E, sebbene, con meno ardore, anche da David Souter e Ruth Bader Ginsburg. Mentre altri, come il presidente della Corte John Roberts, al momento di esprimere un verdetto hanno preferito astenersi.