Sergio Romano, Corriere della Sera 19/4/2009 - Lettere, 19 aprile 2009
In una recente conversazione in occasione di una cena con parenti e amici, ho sostenuto, senza successo, di non essere troppo sicuro che la nostra cucina sia la migliore del mondo e, soprattutto, la più varia del globo
In una recente conversazione in occasione di una cena con parenti e amici, ho sostenuto, senza successo, di non essere troppo sicuro che la nostra cucina sia la migliore del mondo e, soprattutto, la più varia del globo. Chi ci dice che quella italiana sia più varia e ricca di quella del continente cinese, di quello indiano, o della cucina indocinese o giapponese? Dopotutto, Marco Polo ci racconta di ricchissime e raffinatissime imbandigioni consumate alla corte del Gran Khan. Lei che cosa ne pensa? Fabrizio Di Girolamo fadigir@libero.it Caro Di Girolamo, Temo di dovere confermare i suoi dubbi e di essere costretto ad aggiungere che la cucina italiana non è mai stata «la migliore del mondo». Sino a qualche decennio fa la gara per il primo posto fu, se mai, tra Francia e Cina. Non è sorprendente. La cucina, nelle sue espressioni più nobili e raffinate, è il risultato di una cultura gastronomica elaborata nei palazzi reali e imperiali. Nel 1533, per il suo matrimonio con Enrico di Valois, Caterina de’ Medici portò con sé in Francia ricette e cuochi fiorentini. Ma la varietà delle salse, la ricchezza delle combinazioni, la qualità della pasticceria e lo splendore degli arrangiamenti furono opera dei cuochi delle Tuileries e di Versailles. Non basta. Creata e sperimentata a corte, la cucina del palazzo reale entra progressivamente nei palazzi dell’aristocrazia e della borghesia, diventa indice del gusto e dello stile di vita delle classi dirigenti, si diffonde nell’intero Paese, assume un carattere nazionale. La storia culturale della gastronomia italiana è alquanto diversa. Nelle corti principesche e ducali della penisola i fasti di palazzo non furono mai comparabili a quelli di Versailles durante il regno di Luigi XIV. I piatti erano saporiti, i vini buoni, la pasticceria gustosa anche se non particolarmente delicata. Ma il tono e lo stile, se confrontati a quelli della corte francese e della corte imperiale di Pechino, erano piuttosto provinciali. Le classi più umili aguzzavano l’ingegno e riuscivano a fare miracoli con ciò che era offerto dalla natura e dall’ambiente. Ma la loro cucina era necessariamente povera. Il «creatore» della cucina nazionale italiana fu Pellegrino Artusi, autore di un libro apparso a Firenze nel 1891 e intitolato «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie ». un’opera affascinante, ma piena di ricette che sarebbero ai giorni nostri difficilmente realizzabili. Da allora abbiamo avuto ricettari di grande pregio sino al «Nuovissimo cucchiaio d’argento» pubblicato dalla Editoriale Domus e molto noto all’estero per le sue edizioni in inglese e in americano (il lessico gastronomico e le misure cambiano da una sponda all’altra dell’Atlantico). Ma la situazione è ormai molto diversa da quella degli anni in cui questi libri di cucina furono scritti. Sono cambiate le consuetudini familiari e gli orari dei pasti. Il tempo dei fornelli, nelle famiglie in cui la donna lavora, si sono drasticamente ridotti. La globalizzazione e il commercio internazionale hanno alterato il concetto di «prodotto stagionale» perché possiamo comperare uva e pomodori in qualsiasi momento dell’anno. L’industria agroalimentare riesce a sfornare piatti precotti o rapidamente cucinabili di buona qualità. Ogni città europea ha una larga gamma di ristoranti esotici, ma ciascuno di essi adatta il proprio menu alle esigenze locali e mette in tavola piatti che nel Paese di provenienza sarebbero considerati stranieri. Parlare di una gara fra le «cucine nazionali», in queste condizioni, mi sembra quasi impossibile.